IL CASTELLO Protonobilissimo Risolo di SPECCHIA: ALLA SCOPERTA DI UN ENIGMA DEL PASSATO

Pubblichiamo un’altra importante ricerca dello studioso MASSIMO RIMINI

Mi è già capitato di scrivere della storia di Specchia e mi è capitato tante volte di leggere della mancanza assoluta di documenti che raccontino in maniera chiara i fatti che hanno interessato la nostra terra e che hanno condizionato il suo sviluppo, il suo aspetto e le sue tradizioni.
La storia che può essere raccontata è fatta di congetture e supposizione che, in alcuni casi, possono avvicinarsi molto alla realtà e che tratteggiano, a grandi linee, delle vicende che sono indirettamente provate da un territorio, da una città e dai suoi monumenti. Ma esistono dei testimoni assolutamente affidabili che, se venissero ascoltati, saprebbero raccontare moltissimo e potrebbero diradare le nebbie accumulate da secoli di distruzioni, incurie e di indifferenza: sono le pietre che, silenziose ed immobili, hanno visto scorrere la vita di migliaia di persone e gli eventi di grandi personaggi che hanno segnato, più o meno direttamente, le circostanze di un passato lontanissimo.
Nella nostra Specchia di pietre ce ne sono tante e tutte portano evidenti i segni di un trascorso burrascoso e di un continuo cambiamento, fatto di trasformazioni, reimpieghi ed alterazioni che hanno, inevitabilmente, cancellato secoli di storia. Ma, a ben vedere, i tratti distintivi di un’origine antica sono ancora visibili e, con qualche sforzo, è possibile ricostruire un percorso che parte dallo stato attuale delle cose e giunge ad una genesi plausibile ed accettabile.
Il monumento che a Specchia segna in maniera inesorabile lo sviluppo urbanistico dell’intero centro storico, condizionandone il modello di crescita e la conformazione, è il castello che, con la sua mole e la sua grande piazza antistante, assurge a ruolo di massima rappresentazione del potere militare, politico ed aristocratico divenendo il simbolo di un paradigma espressivo medievale.
E’ chiaro a tutti che a Specchia di edifici importanti quanto il castello ce ne sono tanti: chiese e palazzi sono anch’essi fonti preziose di informazioni; il castello però ha tre elementi distintivi che lo rendono unico e protagonista della storia della città: è l’edificio che probabilmente accoglie il nucleo primigenio del centro attuale di Specchia; è la struttura che condiziona il posizionamento di tutti le altre nel tessuto urbano del paese; infine, è l’edificio che, pur con modifiche d’uso ed estetiche, ha ininterrottamente veicolato nel tempo il Genius loci del luogo abitato e frequentato dall’uomo.
La presenza di un fortilizio nel territorio di Specchia è assodata già agli inizi del ‘400 poiché si sa con certezza che l’edificio fu distrutto, tra il 1434 e il 1435, dall’esercito con a capo Luigi III d’Angiò e Giacomo Caldora che “cinse d’assedio la roccaforte di Specchia, che alla fine fu espugnata: le sue soldatesche incendiarono le case, divelsero gli alberi, posero ogni cosa a ferro e fuoco, uccisero e dispersero gli abitanti e ne demolirono le mura ed il castello”. Tale episodio costituisce un vero e proprio spartiacque per la storia del nostro paese poiché ha generato il progressivo e completo depauperamento della storiografia locale che, da quel momento, ha perso inesorabilmente i punti di riferimento ai quali si era agganciato il filo conduttore della storia e delle tradizioni di Specchia.
In realtà, la metà del ‘400 è un periodo funesto per tutto il sud Salento per vari motivi: sono gli anni duranti i quali si concentra una gravissima crisi economica provocata da una terribile epidemia scoppiata nel 1429 che infuriò per tutto il territorio e che ebbe effetti disastrosi sulle popolazioni tanto che nel 1456, quando la pestilenza si placò, re Alfonso promosse un grande pellegrinaggio di ringraziamento alla Madonna di Leuca. Inoltre, piogge torrenziali allagarono le campagne, provocando la distruzione dei raccolti e la fame tra la popolazione locale.
Ai terribili eventi naturali occorre poi aggiungere le innumerevoli guerre intestine che si scatenarono nel Salento tra il 1411 e il 1430 e che provocarono la scomparsa di tanti casali (come Cardigliano) e piccoli centri abitati, mettendo in ginocchio la già precaria situazione economica.
Un quadro davvero desolante che coinvolge anche Specchia che viene citata (Mazzoleni, I registri della Cancelleria Aragonese di Napoli, Napoli 1951) come feudo di Iacopo del Balzo, munita di robusto castello e cinta muraria e città quasi deserta. La rinascita avviene ufficialmente nel 1452 quando il re Alfonso I concede a Raimondo Del Balzo il permesso di ricostruire e di ripopolare Specchia e di dotarla di un nuovo castello e di una nuova cerchia muraria ancora più imponente di quella che era andata distrutta qualche anno prima. Inizia così un periodo di forte crescita demografica, rafforzata dalle scorribande dei Turchi che tra il 1480-1481 imperversarono nel Salento e che resero Specchia un luogo sicuro grazie alla sua posizione geografica e alla sue nuove mura.
Quello che accade negli anni successivi è storia! Dal 1452 le fonti documentarie sul nostro paese iniziano ad essere abbastanza numerose e certe e ne rendono molto leggibile il quadro storico generale.
Il punto è che gli anni della prima metà del ‘400 rappresentano realmente un punto di rottura con il passato di Specchia: si manifesta, sostanzialmente, un quasi totale azzeramento delle vicende, dei fatti, delle tradizioni e della cultura locale che si ripercuote sugli anni futuri con una negazione inconscia di ciò che era stato prima. Il paradosso è che anche ai giorni nostri tale convinzione ed ostinazione perdurano! Infatti, quando si parla della storia di Specchia e dei suoi monumenti si considerano la distruzione subita dalla città nel 1434 e la sua ricostruzione come una sorta di barriera invalicabile che conduce il racconto agli anni successivi, riassumendo in due righe i secoli precedenti con un generico riferimento alla nascita del paese all’anno Mille come rifugio di pastori e menzionandone solo i passaggi feudali; la stessa cosa vale per il ricco patrimonio architettonico, che sembra non esistere nei decenni precedenti ma che compare “miracolosamente” nel periodo della ricostruzione.
Tale atteggiamento è veramente sconfortante poiché preclude la possibilità di raccogliere elementi che invece possono raccontare di un periodo molto florido per Specchia, per la sua cultura, per la sua economia e per le sue tradizioni e che va dal 700-800 d.C. sino ai primi del ‘400.
Ma andiamo con ordine.
Il metodo solito che utilizzeremo è quello dell’“archeologia globale” o “archeologia della complessità” (che ho già illustrato in un articolo precedente), cioè il considerare l’intero territorio come oggetto di studio, confrontando le diverse fonti disponibili per trovare interazioni ed influenze tra le variabili locali, che possono aver generato determinati tipi di fenomeni architettonici o urbanistici, ed eventi storici generali a carattere “sovranazionale”.
Il castello di Specchia diviene realmente una fonte inesauribile di informazioni poiché, seguendo le indicazioni metodologiche suesposte, permette di individuare elementi concreti che fanno avanzare ipotesi di datazione ben lontane da quelle ufficiali e che ravvisano fattori di enorme valore storico e culturale che ci restituiscono vicende completamente diverse da quella conosciute sino ad oggi. L’aspetto attuale dell’edificio è il risultato di una serie di stratificazioni che si sono succedute nei secoli che rendono complicato stabilire la reale consistenza delle strutture murarie all’origine e determinare la conformazione primitiva della fortificazione. Secondo la storiografia ufficiale, la costruzione del castello risalirebbe ai tempi di Raimondo del Balzo e dunque al 1452, epoca della riedificazione della città a seguito della devastazione generata dalla guerra tra i Del Balzo-Orsini e i della Ratta (signori di Alessano) che decisero, all’epoca, di distruggere la pericolosa avversaria e dirimpettaia.
In effetti, tutte le strutture architettoniche hanno le caratteristiche dei secoli successivi ed, in particolare, del ‘600-‘700 quando le ricche famiglie nobili che ne presero possesso vollero dare al castello di Specchia una sembianza meno arcigna, cercando di aggiungere degli elementi decorativi che ne ingentilissero l’aspetto e lo facessero assomigliare più ad un palazzo che ad un maniero.

Figura 1: La facciata principale del castello di Specchia
 

Il processo di restyling fu simile a quello che interessò la maggior parte dei castelli del Salento dalla seconda metà del Cinquecento in poi, con una progressiva riqualificazione degli edifici e l’aggiunta di scaloni, finestre, timpani, portali, bugnati e balaustre che dovevano ostentare la ricchezza e la potenze delle varie famiglie patrizie che autocelebravano, in tal maniera, la propria nobiltà e la propria storia. Le facciate più importanti del castello sono molto diverse tra di loro e sono caratterizzate da stili ed elementi profondamente differenti che si riferiscono a due momenti storici ben definiti e ad una diversità di funzione molto evidente.
Quella su Piazza del Popolo può essere considerata la facciata principale del palazzo ed è profondamente contrassegnata dall’intervento della famiglia Protonobilissimo-Trane che, dopo il matrimonio del 1620, volle inserire due elementi ai quali era assegnata una vera e propria funzione di rappresentanza: l’imponente portale sormontato dallo stemma di famiglia (con la stessa corona che il marito regge nelle mani nel quadro dell’Annunciazione nella Matrice) e con ai lati i due mezzibusti rappresentanti l’augusta coppia Margherita e Desiderio e l’ampia loggia coronata da una balaustra sulla quale prospettano i sei grandi finestroni che danno luce ai saloni del piano nobile. La seconda facciata è quella su Via Umberto I ed è dominata dalla balconata lunga circa una cinquantina di metri, con nove paraste, aggiunta nell’Ottocento dopo il riempimento del fossato del castello e che, probabilmente, fu costruita per dare un certo decoro ad un prospetto alquanto spoglio e privo di elementi ornamentali. Da questo lato si trova il grande salone illuminato da quattro grandi finestre che costituisce il punto di unione tra il torrione più alto del castello ed il mastio più tozzo sito sul lato opposto. Anche il cortile interno fu profondamente modificato nel corso dei secoli con una progressiva aggiunta di corpi di fabbrica che lo ridussero nelle dimensioni e nella forma (da quadrato a rettangolare).

Figura 2: Ricostruzione 3D del castello nel suo aspetto attuale

Ecco nella figura 2 la ricostruzione virtuale dell’edificio odierno che ci permette di apprezzare, pur nelle sue approssimazioni, la complessità della costruzione e di percepirne l’effetto d’insieme che dal vivo risulta difficile cogliere a causa delle difficoltà di analisi prospettiche che il sito avanza. Dall’osservazione del modello, ed in verità anche degli elementi architettonici che compongono la struttura, appare subito evidente una conformazione quadrangolare distribuita intorno ad un cortile centrale e delineata da tre grossi avancorpi che ne definiscono i contorni.
Iniziamo ora un lavoro di pulizia strutturale utilizzando i principi del restauro stilistico, quelli secondo cui il restauratore deve immedesimarsi nel progettista originario e integrarne l’opera nelle parti mancanti, perché successivamente distrutte o alterate da nuovi interventi, proviamo cioè a togliere tutte le porzioni che, progressivamente, si sono aggiunte nel corso dei secoli, cercando così di ritrovare l’aspetto originario del nostro castello.

Figura 3: Il castello prima degli interventi dell’Ottocento

La prima operazione riguarda l’eliminazione della parte aggiunta nell’Ottocento sul sito del fossato e che attualmente ospita i locali, i bar e i negozi su Via Umberto I (fig.3). Appare incredibilmente evidente una struttura “classicamente” medievale, caratterizzata da un mastio basso e massiccio e da un’ala a due piani che lo collega al secondo torrione più alto e slanciato. La semplicità delle linee e l’asprezza delle fattezze sottolineano l’uso strettamente militare della struttura, tesi che appare ancor più evidente se si pensa che da quel lato era presente un fossato (riempito ed occupato dalla balconata) che teneva ben separato questo versante del fortilizio dal resto del tessuto urbano.

Figura 4: La facciata su Via Umberto I senza la balconata.

Ecco la facciata rielaborata (fig.4) vista da un’altra angolazione che rende più comprensibile le considerazione suesposte; anche lo spessore delle murate presente su questo lato dell’edificio fa pensare alla necessità che queste fossero in grado di resistere e respingere attacchi ed assalti e il fianco rientrante della manica di collegamento delle due torri conferma ulteriormente una disposizione strategica degli elementi architettonici. Occorre considerare che la parte adiacente all’alto e snello torrione ad angolo su Piazza del Popolo è il prodotto di una serie di aggiunte ben evidenti dalla diversa tessitura muraria che si ravvisa da un’attenta osservazione. Capire quale di questi facesse parte della struttura originaria non è cosa semplice poiché si dovrebbe attuare uno studio diretto sui materiali e sulla tipologia costruttiva che non sono attualmente possibili. Possiamo però sottoporre ad analisi la pianta di quella zona del castello e scoprire, così, che le deduzioni diventano abbastanza ovvie perché la diversa consistenza delle parti strutturali rivela quali di esse fosse l’originaria e quale invece sia il prodotto di aggiunte posticce.
Osserviamo la mappa in basso (fig.5) relativa allo stato attuale delle cose e, con un’operazione di maquillage (fig.6), cancelliamo sia le appendici più o meno moderne che si sono accumulate sulla parte prospiciente Via Umberto I e sia le aggiunte settecentesche rilevabili nel cortile interno che riacquisisce così le sue dimensioni primitive. Eliminiamo anche la parte retrostante il torrione più basso impegnata in parte dalla balconata ottocentesca ed in parte da un cortile ed un giardino che, molto probabilmente, hanno occupato un’altra porzione del fossato che isolava il maniero dal territorio circostante almeno sino al punto in cui inizia il declivio della collina verso la pianura che, evidentemente, non aveva bisogno di eccessive difesa data la particolare conformazione naturale del suolo. Ecco che la forma del castello appare in tutta la sua semplicità ed efficacia, rivelando un impianto quadrangolare caratterizzato, su questo lato, da due torri o masti di difesa che solleva molti dubbi sulla reale origine del castello di Specchia che potrebbe risalire a tempi ben più remoti rispetto ai primi del Cinquecento.

Spostiamoci ora sulla facciata di Piazza del Popolo: da questa parte ci troviamo di fronte ad una rielaborazione totale dell’impianto originario che rende più articolato il ragionamento sulle ipotesi ricostruttive da avanzare. Occorre procedere, anche in questo caso, all’eliminazione di tutto quello che si è aggiunto nei secoli e che ha sovraccaricato la struttura primitiva ed occorre iniziare proprio dalla bellissima terrazza balaustrata seicentesca che unisce l’alto torrione ad angolo con il tozzo l’avancorpo a destra della facciata che avanza di circa tre metri e che ospita, al piano nobile, una profonda loggia coperta (fig.7). Capire gli stadi evolutivi di questa zona del castello diventa molto arduo anche se ci vengono in soccorso due o tre elementi che forniscono qualche indizio utile alle nostre valutazioni.

Figura 7: Facciata su Piazza del Popolo.

Partiamo dal sontuoso portale d’ingresso che immette in una galleria di circa 15 metri con volta a sesto acuto che conduce al cortile rettangolare con al centro un grande pozzo di probabile fattura cinquecentesca. Anomala è la tipologia di copertura adottata per questo lungo corridoio che, inaspettatamente, si presenta con un innesto ben evidente nei primi tre metri dall’ingresso con volta a botte e che corrisponde, nel suo spessore, all’aggiunta seicentesca che ha tamponato l’invaso originario (fig.8). Si potrebbe ipotizzare un portale che avesse una tipologia estetica di tipo gotico e quindi risalente almeno al Duecento-Trecento e che poi sia stato valutato inadeguato in fase di ammodernamento o che si sia ritenuto necessario incorporarlo nella nuova struttura addossata al fianco arretrato, situato tra il torrione principale e l’avancorpo basso che chiude la facciata sul lato destro. Il richiamo (o la sua immagine riflessa) potrebbe essere rappresentato da ciò che rimane dell’originario ingresso della chiesa matrice, recentemente riscoperto in fase di restauro della murata esterna del transetto; sappiamo infatti che la Chiesa Madre di Specchia ha subito una vera e propria rotazione della navata principale che, in origine, era l’attuale transetto.
L’altare del Cuore di Gesù occupa il vano di ingresso sito sotto la torre campanaria e, per evidenti ragioni estetiche, la profonda rientranza a sesto acuto con triplice corona che incorniciava la porta d’ingresso (fig.9) fu tamponata per rendere uniforme il fianco sito proprio di fronte la facciata del castello.

Continuando ad osservare la facciata principale, all’altezza del piano nobile è visibile la linea di demarcazione della soprelevazione delle volte dei saloni cinque-seicenteschi che è ben evidenziata dalla differente tessitura della struttura muraria che nella parte bassa (n.1 fig.10) si presente a maglia irregolare con pietrame di taglia diversa, mentre nella parte alta (n.2 fig.10) diviene lineare e molto ordinata.

Figura 10: Particolare della muratura della facciata.

Questo particolare potrebbe indicare o un cambio di destinazione d’uso di quel versante del castello o un ammodernamento eseguito su delle stanze che dovevano dare più lustro ai proprietari del palazzo. Io prediligerei la prima ipotesi, cioè una traslazione delle sale di rappresentanza dal lato Ovest (e quindi dalla grande sala al primo piano con i finestroni su via Umberto) a quello Sud, proprio per una evidente pretesa di incidere e segnare profondamente la piazza antistante facendo assumere al castello un aspetto più consono alle “moderne” esigenze di chi lo occupava.
Da quanto descritto sino a questo punto, abbiamo già abbastanza elementi per dire che la conformazione del nostro castello è sicuramente di matrice quattrocentesca, ma i sospetti che si possa trattare di una costruzione ben più antica aumentano e le prove circostanziali si fanno sempre più numerose; ma l’evidenza che mostra una relazione con un’altra evidenza e non con il fatto in se stesso non è una certezza bensì un indizio! Se però dall’esterno del castello ci spostiamo all’interno del cortile i dubbi e le incertezze vengono meno poiché su di un lato dello stesso sono conservati i segni indiscutibili di un passato molto antico e di un tempo glorioso durante il quale il castello di Specchia doveva assurgere a simbolo di nobiltà, di lusso e di cultura e la via scelta per trasmettere tali messaggi fu la pietra, nella quale dovevano rimanere incisi e tramandati ai posteri; si tratta di alcuni particolari (a dir la verità, neanche tanto nascosti) che denunciano un aspetto del cortile estremamente elegante e ricercato e riferibili ad un periodo che va dal Duecento avanzato a tutto il Trecento.
Guardiamo la foto in basso che riproduce a tutto campo il lato Ovest del cortile: la prima cosa che salta all’occhio è la mancanza di un disegno organico che coinvolga la struttura che si presenta sconclusionata e non uniforme, se non per le tre grandi finestre rettangolari al primo piano.

Figura 11: Lato Ovest del cortile.

Effettivamente sembra che finestre ed aperture varie siano state inserite sulla facciata senza nessun tipo di criterio preciso; a ben vedere però, traspare ciò che rimane dell’antico assetto della murata della manica che collega i due torrioni del castello e che doveva ospitare le sale di rappresentanza della corte che faceva seguito al feudatario, signore del luogo. Abbiamo numerato gli elementi rimasti che ci possono aiutare a capire come stavano le cose: i numeri 1-2-3 segnano la quota originaria dei parapetti delle antiche bifore che dovevano dar luce alla sala più grande del castello e, che in numero di tre, sono stati poi sostituite dai finestroni rettangolari di epoca successiva, siti ad un’altezza diversa sul muro. Il numero 4 individua l’altezza del marcapiano della facciata, che poi è stato innalzato di quasi un metro; con i numeri 5-6 troviamo indicate le due monofore che si collocano al centro dei rispettivi archi di volta a sesto acuto; erano in origine 4: una era sita dove ora si trova l’apertura di un magazzino e l’altra probabilmente occlusa dalle arcate della terrazza settecentesca visibile sulla destra.

Figura 12: I resti della bifora.

Senza dubbio il particolare più interessante è quello marcato dal numero 1 che indica la posizione dell’unica bifora rimasta per metà intatta (fig.12) e che rappresenta, con le sue decorazioni, un preziosissimo esempio dell’opulenza e della ricchezza che i visitatori dell’epoca dovevano osservare una volta avuto accesso al cortile del maniero. Osservandola da vicino (fig.13)si vede una coppia di pavoni che coronano l’arco della bifora e che si oppongono alzando una zampa; sono a loro volta incorniciati da una decorazione floreale (probabilmente edera) che circonda tutta la curva dell’apertura. Il pavone sulla destra è quello che si è conservato meglio e mostra un’eleganza ed un’accuratezza dei particolari sorprendenti, il suo riflesso appare invece pesantemente danneggiato dal tempo; sotto di loro si intravede ciò che rimane degli archetti che costituivano la bifora vera e propria.
Nella parte bassa, la fascia più stretta termina su una piccola colonna con basamento sito su un marcapiano privo di cornici. Risulta difficile capire se l’arco esterno della bifora presentasse delle decorazioni scolpite, ma potrebbe essere plausibile pensare ad un qualche genere di abbellimento vista la presenza di segni di scalpellatura che potrebbero testimoniare un tentativo di regolarizzazione della superficie muraria della facciata o, peggio ancora, la volontà di rimuovere i simboli di una precedente committenza per cancellarne, in maniera definitiva, il ricordo.

Figura 13: Particolare della bifora.

Le parti della bifora rimaste integre ci permettono di ricostruire il suo aspetto originario tramite un’operazione di restauro virtuale che consiste nell’integrare le zone danneggiate o mancanti con dei “pezzi” ricostruiti graficamente.
Partiamo con il “ribaltare” la parte destra della finestra che permette di avere il gemello riflesso del pavone; facciamo la stessa cosa con gli archetti pensili che ci restituiscono così l’aspetto delle due monofore (fig. 14 quadrante in alto a sinistra). Aggiungiamo il foro centrale a forma di fiore a quattro petali (quadrante in alto a destra) di cui rimane solo la parte superiore; proseguiamo con l’inserimento della colonnina centrale con capitello composito (quadrante in basso a sinistra) ed, alla fine, diamo profondità alle aperture eliminando i blocchi di tufi che hanno occluso la bifora. Ecco come doveva apparire la finestra del cortile che insieme alle altre due, delle quali rimane conservata solo la soglia e i basamenti delle colonnine, davano luce probabilmente ad un grande salone del lato Ovest del castello.
L’eleganza e la raffinatezza delle decorazioni, anche se molto approssimate nella ricostruzione virtuale fatta, lasciano comunque intravedere una ricercatezza ed una volontà ben evidente di conferire al cortile del castello un adeguato tono di rappresentanza e neanche tanto comune, soprattutto se pensiamo a quello che rimane nel Salento degli apparti decorativi due-trecenteschi di edifici non religiosi: praticamente nulla.
Ma il nostro azzardo può ben andare oltre: possiamo ora provare ad immaginare come dovesse presentarsi il cortile del castello intorno al 1300, partendo proprio dagli elementi superstiti ed alle ricostruzioni virtuali sin qui fatte.

Figura 14: Ricostruzione virtuale della bifora.
Figura 15: Ricostruzione virtuale del cortile del castello.

In alto (fig.15) il look del cortile ottenuto eliminando tutte le appendici dei secoli successivi e ricollocando sulla facciata le tre bifore del primo piano e le 4 monofore del piano terra. Rispetto all’immagine originale (fig.11), è stata anche abbassata la quota del tetto che lascia intravedere con più chiarezza anche la struttura del mastio ad angolo sulla destra e sono state cancellate le strutture a sinistra, nella zona dell’ingresso. Anche i questo caso le approssimazioni sono tante, ma ci danno un’idea della consistenza delle cose all’epoca angioina.
Se mettiamo insieme anche le considerazioni fatte precedentemente sulla zona Ovest, sulla facciata di Piazza del Popolo e il portone d’ingresso potremmo azzardare ancora di più ed ottenere una ricostruzione 3D del castello angioino di Specchia (o forse precedente?) in una sequenza molto divertente di immagini che riprendono da varie angolazioni il maniero: nella prima il lato su via Umberto e quello sulla piazza (con il vano ingresso a sesto acuto ed un ponte levatoio che scavalca il fossato); nella seconda anche il lato verso lo strapiombo della collina ed, in quelle successive, varie prospettive del cortile.

La struttura del castello si presenta (in virtù delle suggestive ricostruzioni fatte) con un impianto “classicamente” altomedievale: quadrangolare, con due grossi masti sul lato più esposto ed uno più basso e tozzo verso l’attuale piazza e fossato per i ¾ del perimetro, dato che il lato verso il declivio della collina aveva una già una difesa naturale rappresentata dal salto d’altitudine con la vallata sottostante. La parte interna aveva un ampio cortile centrale quadrato sul quale prospettavano le eleganti tre bifore riccamente decorate che davano luce alle sale della snella manica di collegamento tra i due torrioni e che ospitava, probabilmente, la residenza del castellano e le zone di rappresentanza.

A questo punto sorgono seri interrogativi: a quale epoca risale il castello di Specchia? Quale nobile famiglia ne era proprietaria? E’ possibile parlare di una corte che risiedeva nella struttura? Quali sono le relazioni tra il castello e il resto del centro urbano di Specchia? Domande alle quali non è semplice dare una risposta e che presuppongono una serie di analisi estremamente ardue, non prive di approssimazione. Ma rimanere legati esclusivamente allo studio delle cose in loco sarebbe sbagliato poiché, un approccio di questo tipo, ci impedirebbe di comprendere esattamente le possibili cause che hanno generato certi fenomeni insediativi; allora, ritorna utile quanto detto all’inizio sull’“archeologia globale”: imparare a studiare l’intero territorio per trovare i collegamenti tra le condizioni locali che possono aver generato determinati tipi di fenomeni architettonici o urbanistici ed eventi storici generali.
Cosa sappiamo esattamente delle origini di Specchia e del suo ruolo nella storia del Basso Salento? Non molto! Ma non sappiamo tanto neanche della storia antica del Salento in generale poiché, al di là dei resti del passato disseminati su tutto il territorio, non si conservano adeguate memorie che possano contribuire ad una ricostruzione organica ed affidabile della nostra storia antica. Di certo possiamo affermare che intorno all’attuale paese dovevano esserci numerosi insediamenti umani che sono testimoniati da molte tracce visibili e che raccontano di una continuità abitativa che parte dall’epoca protostorica, prosegue nel periodo romano e bizantino ed arriva sino al Mille, anno della presunta nascita di Specchia. E’ molto probabile che sulla sommità della collina vi fosse un piccolo centro abitato da contadini e pastori che avevano trovato il luogo adatto alle loro esigenze, poiché permetteva di controllare la pianura sottostante e di prepararsi ad eventuali incursioni. Già al tempo dei Messapi l’intera area era disseminata di piccoli centri abitati nei quali brulicavano schiere di uomini intenti nella loro faticosa esistenza e non dovevano essere molto dissimili da quelli dei quali sono state rinvenute le tracce, ad esempio, a Cardigliano (dove le tombe ritrovate risalgono addirittura alla prima età del bronzo); nelle epoche successive questi insediamenti non si devono essere modificati eccessivamente e il fatto che di essi siano stati rinvenuti i resti praticamente in tutto il circondario del paese fa pensare che anche all’interno del suo perimetro moderno debbano trovarsene, da qualche parte, sepolte le spoglie.
Questa presunzione potrebbe basarsi su alcune considerazioni di carattere generale che partono dall’osservazione delle particolarità insediative anche di altri centri del Basso Salento; possiamo infatti partire da un punto assolutamente certo e che riguarda la particole posizione territoriale di Specchia: è situata sulla dorsale delle serre salentine che partono da Corigliano e scendono sino a Leuca. In tutta quest’area sono presenti i medesimi tipi di tombe arcaiche che seguono un’allocazione similare e cioè tutte situate nel banco di pietra leccese, posizionamento che farebbe pensare ad una tipologia insediativa piuttosto aperta e sparsa lungo i sentieri che costeggiavano i sistemi montuosi locali, impervi e folti di vegetazione.
A differenza però della zona di Maglie, l’area di Specchia presenta degli elementi diversi che fanno pensare ad una assoluta continuità di sfruttamento del territorio costante e ben organizzata; infatti, nella zona di Sant’Eufemia è sicura la presenza di una villa romana o di una piccola fabbrica di ceramica che rimase attiva per molto tempo e che poi, probabilmente, si spostò nella zona di Lucugnano. E’ verosimile supporre che questo punto di aggregazione funzionò da polo di richiamo per le nuove comunità provenienti dall’Oriente che, durante l’epoca bizantina, si insediarono in tutto il Salento. Si potrebbe anche pensare che la particolare intensità di presenza di monaci greci nel nostro territorio (testimoniata dai tanti toponimi di chiara origine orientale e dalle chiese di rito greco ancora presenti agli inizi del Cinquecento) avesse portato ad una estensione tale dei nuclei insediativi da farli diventare un’unità fiscale denominata Chorion; in effetti, sul territorio di Specchia si trova riprodotto il modello di sviluppo rurale che coinvolse tutta la Puglia tardoantica, vale a dire quello del vicus, cioè di un abitato rurale raggruppato intorno ad una villa padronale, nel quale vivevano contadini ed artigiani impegnati nei terreni dei piccoli proprietari terrieri e che molto spesso ospitava un edificio religioso (fig. 16) che iniziava a diventare il nuovo polo di attrazione degli abitanti delle campagne salentine. Situazioni identiche si riscontrano ad Otranto, Campi Salentina, Vaste, Giurdignano, Casaranello ed in tantissimi altri siti della Puglia meridionale, tutti luoghi dai quali è possibile, secondo G. Volpe, dedurre un modello simile caratterizzato da alcuni punti fissi: a) edifici di culto rurali che si diffusero tra V e VI secolo; b) chiese che subirono un processo di riutilizzo e trasformazione nei secoli successivi; c) l’allocazione geografia di questi edifici era molto legata sia alla viabilità antica e sia alla vicinanza di ville e vici tardoantichi; d) le chiese assolvevano sia ad una funzione religiosa sia a funzioni di commercio, di scambio e fiscali.

Figura 16: Ricostruzione di un villaggio rurale.

Dunque, a Specchia questi elementi ci sono tutti e dunque continuare ad insistere su una “casuale” nascita del paese nell’anno Mille diventa davvero inopportuno e, quanto mai, imbarazzante. Infatti, a quelli raccolti sino a questo punto, occorre aggiungere altri elementi: Specchia si trova situata proprio lungo una derivazione dell’antica via dei Pellegrini, cioè il tragitto che i fedeli percorrevano per raggiungere il santuario della Madonna di Finibus Terrae a Leuca o, dall’anno 1300, primo Anno Santo, per raggiungere Roma; la strada collegava numerose cripte, cappelle votive, ospedali, edifici di culto disseminati lungo le Serre. Nella zona del nostro paese, la strada proveniva da Ruffano e da Cardigliano passava per la chiesa e il ristoro di S. Angelo per scendere attraverso la Serra dei Peccatori e dei Cianci verso Alessano, Salve, Morciano e Leuca.
Probabilmente le cripte, i conventi e le chiese sparse nella periferia del paese rappresentavano dei luoghi di sosta per i pellegrini ed è probabile che intorno alla chiesa di Sant’Eufemia vi fosse un vero e proprio centro di “polizia e finanza” che controllava l’intenso traffico che passava dalla zona e che era presieduto (forse) da un gruppo di Templari che avevano, intanto, riutilizzato la stessa chiesa dedicandola alla loro Santa più amata e introducendo quelle modifiche strutturali che le hanno dato la conformazione attuale. Riprendendo quello che avevo scritto in un articolo precedente, le rilevazioni in situ effettuate da Salvatore Fiori (pubblicate in “La chiesa di Santa Fumia di Specchia e il culto di Santa Eufemia nel basso Salento” negli atti del XXV Convegno di ricerche Templari a cura della L.A.R.T.I., 2007) hanno rilevato un’originalità del progetto straordinaria in merito alla collocazione in pianta delle due file divergenti delle colonne dalla porta d’ingresso verso l’altare (fig. 17).

Figura 17: Sovrapposizione della chiesa con la pianta

All’interno della chiesa sono presenti numerosi simboli dell’arte bizantina (croci patenti cerchiate, croci latine) e possono essere riferite alla volontà di testimonianza dei cavalieri templari. Nell’area tricasina, la presenza templare è assodata: ad Andrano si riscontra la presenza dell’ “Ospedale” con la sua croce patente sul fronte; vicino la grotta dell’ “Attarico” con croci patenti potenziate; a Tricase la chiesa di Santa Maria al Tempio. Sembrerebbe che il culto sia nato ad Otranto nel monastero di Casole e sia durato sino al 1480 (l’anno della distruzione) e non è un caso che vicino ad Otranto i templari avessero una propria mansione con navi per il controllo dei traffici commerciali e per l’approvvigionamento militare ai tempi delle crociate. A Specchia, nel terreno attiguo alla chiesa, sono stati trovati, durante i saggi di scavo condotti nel 1975, delle tombe medievali contenenti numerosi reperti datati (M.R. Salvatore) tra la fine del XIII e l’inizio del XIV e probabilmente riferibili a sepolture di personaggi aggregati ai templari che potrebbero aver ritenuto estremamente onorevole farsi seppellire nelle immediate vicinanze della chiesa della santa più venerata. Il quadro complessivo, dunque, appare davvero completo e ricco di fattori che evidenziano, in maniera chiara, il tragitto da seguire nella ricostruzione storica delle origini di Specchia.
Ma torniamo al punto di partenza: quando nasce il castello di Specchia e quando diviene città fortificata? La risposta, a mio avviso, va trovata analizzando i fattori che hanno potuto pesare sulla scelta del sito dell’attuale centro storico e quelli che hanno poi generato la decisione di qualcuno di rendere Specchia città militarizzata. Sicuramente, la presenza di varie abitazioni sparse su tutto il territorio e prive di reali apparati di difesa ha fortemente spinto alla creazione di una sorta di luogo di rifugio nel quale convergere in caso di necessità: tale esigenza ha favorito la nascita di un borgo sito sulla collina nel quale dormire e nel quale riporre al sicuro animali (il bene più prezioso) e le provviste, lontani da scorrerie e occhi stranieri indiscreti. Occorre anche aggiungere che, in quel periodo, tutto il Sud Salento era caratterizzato dalla presenza del Bosco di Belvedere, cioè un’ampia foresta costituita da querce e macchia mediterranea che si estendeva da Tricase a Scorrano, per poi cambiare nome verso il Nord. La profonda influenza esercitata da questo bosco nella storia e nell’economia locale è evidente anche dagli stemmi civici di alcuni paesi che vi si trovavano immersi: Miggiano, Nociglia, Ruffano, Scorrano, Supersano ed anche Specchia, il cui mandorlo potrebbe denunciare la prevalenza di questo tipo di albero nella propria zona di pertinenza. Una tale fonte di ricchezza (per selvaggina e legname) potrebbe aver spinto i locali signori a stabilire dei principi e dei luoghi di presidio che avrebbero potuto salvaguardarla sia da scorribande di pirati e sia da mire di espansione territoriali di qualche ricco proprietario terriero locale. Dobbiamo infatti pensare che la situazione economica, militare e culturale del Basso Salento prima dell’anno Mille era tutt’altro che confortante: popolazione sparsa e mal organizzata, scorrerie saracene continue e devastanti, assenza di eserciti preparati, pestilenze continue, attività economiche rade e prive di prospettiva.

In questo contesto si inseriscono i Normanni che trovano un territorio facilmente conquistabile e agevolmente condizionabile, nel quale introdurre un nuovo assetto politico-militare da adattare alle specificità locali. E’ proprio grazie ai Normanni ed alle loro fonti storiche che si iniziano a conoscere i nomi di molti centri abitati, tuttora esistenti, o di altri scomparsi nei secoli e si comincia a delineare una netta distinzione tipologica-insediativa che permette di collocare cronologicamente la nascita o la già esistenza di un centro o di un castello; è anche grazie a loro che si innesta il sistema feudale locale che inizia a strutturarsi secondo modelli specifici e fortemente capillari. Verrebbe da pensare che la fitta rete di paesi nel Salento sia istituita proprio dai Normanni che favorirono la nascita dei casali come strumento di controllo e presidio territoriale; ma una considerazione di questo tipo sarebbe a priori sbagliata poiché porterebbe ad ignorare la ampie testimonianze antiche che dicono che tanti nuclei abitativi già esistevano prima dell’avvento normanno.
Rifacendosi alle considerazioni fatte dallo studioso Jean-Marie Martin, da Giancarlo Vallone e da Salvatore Musio, possiamo affermare che la tipologia insediativa normanna non fa altro che riprendere i modelli bizantini già presenti sul territorio; e così il paradigma kastra-kastellum-chòria si trasforma in civitas-castrum-casalia, però con le dovute precisazioni e puntualizzazioni che ci salvano da generalizzazioni rischiose che ci porterebbero su una pista sbagliata.
Il punto fondamentale sta proprio in questo: capire, in virtù delle scarne informazioni rilevabili dalle fonti normanne, quando un nucleo abitativo già esisteva e quando cambia le proprie connotazioni insediative, divenendo città o presidio grazie alla costruzione di un castello; per Specchia, l’esercizio mentale ha la stessa valenza: di certo quando i Normanni arrivarono il centro abitato esisteva già! Lo dicono le testimonianze archeologiche ed anche qualche dubbia fonte scritta come quella riportata dal professor Penna e rintracciata nell’Annales Ecclesiastici 1588-1607 del Baronio nel quale si afferma che le truppe francesi di Carlo il Calvo, mandato da Papa Giovanni VIII (872-882) per cercare di scacciare i Saraceni dal Salento, assediarono Specchia e Montesardo che erano tenute dai Saraceni e che furono poi riconquistati dagli alleati poco prima della famosa battaglia di Vereto. Di certo sappiamo che nel 1190 Specchia entra a far parte della Contea di Lecce ed infeudata a Filiberto Monteroni, allorché Tancredi viene eletto conte di Lecce da una manica di nobili che si ribellarono all’unione tra Enrico VI (figlio di Federico Barbarossa) e Costanza (sorella di Guglielmo II il Buono), madre di Federico II, fino a che lo stesso Enrico non represse con violenza la ribellione dei feudatari locali, iniziando così una progressiva sostituzione della nobiltà locale con quella più fedele di origine teutonica.
In quest’area l’inizio del Millennio era stato molto turbolento e tutta la regione aveva manifestato una qualche insofferenza nei confronti della Contea di Lecce e della Corona che da poco (1069) aveva tolto ad Otranto il titolo di capoluogo di provincia ed aveva creato i Vescovati latini di Castro ed Alessano, forse nel tentativo di eliminare le forti influenze culturali greche. E sembrerebbe che questa situazione sia continuata per oltre un centinaio d’anni poiché Guglielmo il Malo è costretto a soffocare nel sangue le rivolte feudali guidate da Tancredi, conte di Lecce, sino a distruggere nel 1147 la città di Vaste, i cui abitanti vanno a rifugiarsi nelle aree vicine e vanno dunque a rafforzare il popolamento dell’aree abitate limitrofi. E’ questo il passaggio nevralgico di tutta la questione: è esattamente il momento in cui inizia il processo di forte controllo locale del Salento che viene continuato poi da Federico II. Quest’ultimo, con l’aiuto dei nobili più fidati, riesce a contenere le mire di potere dei feudatari grazie anche alla creazione o al rafforzamento di strutture militari di presidio e di una forma gerarchica ben delineata che rimane invariata anche con dopo la caduta degli Svevi e l’arrivo degli Angioini, chiamati dal Papato per combatterli, i quali non fanno altro che sostituire, ancora una volta, ai signori normanni-svevi i nobili di origine francese, innescando anche un sistema economico basato sulla tassazione statale regolare.
Dicevamo che Specchia nel 1190 va a Filiberto Monteroni, ma questi non era il primo nobile a possederla; infatti sbirciando tra i lunghi elenchi di Baroni di Terra d’Otranto all’epoca di Guglielmo II (1166-1189) riportati da A. Foscarini nel 1927 nell’opera “Armerista e notiziario delle famiglie nobili” troviamo che tra i feudatari di Montesardo compare un certo Goffredo de Specca. Nella lunga lista citata, compaiono numerosi nomi di origine normanna che lasciano intravedere l’articolato sistema di controllo e comando escogitato dai sovrani per garantirsi la stabilità e la fedeltà di questa parte del Regno. La famiglia Monteroni era una delle famiglie più importanti della Terra d’Otranto e tenne il territorio di Specchia, Taurisano, Miggiano ed altri paesi limitrofi sino al 1265 circa. L’attribuzione a questi nobili di quest’area non fu casuale: era un tentativo di Tancredi di tener buoni alcuni cavalieri con la concessione di feudi nel basso Salento. Le sue aspirazioni regali ebbero però vita breve, poiché morì nel 1194. Rimane dubbio il fatto che, nonostante la morte di Tancredi, i territori assegnati ai Monteroni rimangano a tale famiglia sino all’arrivo degli Angioini; evidentemente il valore e la storia di questa casata aveva fatto dimenticare lo smacco fatto alla Corona o, molto più probabilmente, Enrico seguiva una politica di concessioni nei confronti delle famiglie di alto rango più importanti e, quindi, più “pericolose” per le sue politiche di controllo ed equilibrio territoriale. Quando ai Normanni subentrano gli Svevi, Carlo d’Angiò concede a Rodolfo D’Alnay la Contea di Alessano, comprendente anche Specchia. L’ultima della dinastia, Caterina, nel 1325 sposa Beltrando Del Balzo.
Ma a cosa possono servire citazioni o analisi sulle successioni di quest’epoca al nostro studio? Beh, probabilmente a nulla se ci si illude di ricostruire in maniera accurata l’albero nobiliare della nostra cittadina: cosa impossibile allo stato attuale! Se però guardiamo al concetto generale della distribuzione territoriale del potere e della conseguente classificazione ed attribuzione di competenza locale, appare importantissimo tener conto delle suddivisioni e successioni feudali nei secoli del nostro territorio poiché da questi fattori se ne deducono l’ampiezza e l’importanza nel tempo. In sostanza, seguendo le indicazioni di Giancarlo Vallone nel suo capitolo “Terra, feudo, castello” nel libro Dal castello al palazzo baronale a cura di Cazzato e Basile, è possibile supporre che quando una “terra feudale” racchiude delle parti di corpi abitativi diversi, essa probabilmente fu una parte di una unità feudale più ampia. Se vale questo principio, vale anche che nelle parti fratte della terra è possibile trovare traccia della stessa unità.
Il caso-studio affrontato dal Vallone è quello riferito a Morciano di Leuca che viene assunto a tentativo di ricostruzione storica sia della importanza feudale del suo territorio e sia come prova della reale origine del suo bellissimo castello (attribuito erroneamente al Brienne).
Seguendo le sparute notizie rilevabili nei documenti angioini, si arriva a concludere che Morciano fosse stato suddiviso in varie quote e in una di queste vi fosse già un castello (antecedente a quello ufficialmente nominato tra il 1463 e il 1464). Se ne deduce anche che Morciano, molto probabilmente, facesse parte insieme a Gagliano, Salve ed Acquarica di un’unità feudale risalente all’epoca normanna.
In sostanza, la presenza di un feudatario in capite presuppone anche l’esistenza di un castrum inteso non (o non solo) come insediamento circondato da mura, ma come residenza murata del feudatario ed atta a difendere anche i pochi villani presenti nelle sue immediate vicinanze. Ma per Specchia è possibile fare altrettanto?
Probabilmente sì! Iniziamo con l’elencare i “titolari” del feudo di Specchia i cui nomi sono stati rintracciati (anche indirettamente) nei documenti ufficiali e il periodo storico di riferimento; non si tratta di un semplice esercizio di ricerca bibliografica, ma di un modo per raccogliere le idee e formulare successive ipotesi.
Come anticipato, ancor prima dell’entrata nella Contea di Lecce del 1190, il nome di Specchia compare nell’elenco dei Baroni di Terra d’Otranto redatto durante il regno di Guglielmo II, quindi tra il 1166 e il 1189, quando si riportano i nomi dei feudatari di Montesardo tra i quali compare un certo Goffredo de Specca. I nomi riportati sono di chiara origine normanna e quel “de” apposto subito dopo il nome indica, se non la provenienza, la proprietà o il titolo della terra di riferimento. Chi era questo Goffredo? Era un componente della famiglia dei De Specula, una famiglia di probabile origine normanna, che assunse questo nome dal primo feudo che aveva ottenuto intorno al 1100, Specchia appunto. Secondo quanto riportato da Carmelo Sigliuzzo ne “Castelli Normanni in Terra d’Otranto”, i De Specula sono anche quelli che hanno poi edificato, sempre intorno al 1100, il nucleo originario del castello di Presicce e sono accertati tra i baroni della zona di Montesardo (il nostro Goffredo); intorno al 1270 diventano anche vassalli dei conti di Alessano (con Manfredo) e ancora agli inizi del trecento (con Roberto).
Nel 1190 entrano in scena i Moteroni (meglio sarebbe dire i Montoroni) che ottengono, oltre a Specchia, anche Taurisano, Miggiano ed altri paesi limitrofi. Sembra dunque che fino a questo momento il feudo di Specchia sia assolutamente intonso e non suddiviso in quote diverse, anzi, fa parte di una porzione notevole di territorio feudale: d’altronde in Terra d’Otranto al tempo di Guglielmo il Buono si annoverano circa un centinaio di baroni e, presumibilmente, ognuno aveva il suo castello/fortilizio/torre. Siamo ancora in una situazione di equilibrio, nella quale la Corona centrale riesce a garantire il giusto presidio territoriale e la giusta assegnazione ai propri seguaci. Teniamo presente che in questa fase della monarchia normanno-sveva il processo di concessione di un feudo era cosa estremamente complicata e centralizzata: il Re si guardava bene dal concedere troppe libertà a baroni vari che avrebbero potuto in qualsiasi momento creare dei problemi di gestione al potere centrale. Di fatti, il feudo (o beneficium) veniva dato in dono ai vassalli del signore che gli avevano prestato servizio e che ricevevano in cambio una porzione di terra da coltivare; il terreno però non veniva “donato” in senso stretto, ma concesso a titolo di “comodato”, per cui i vassalli ne erano i possessori, ma non ne avevano la piena proprietà. Questo concetto è fondamentale perché ci aiuta a capire come mai un feudo venisse assegnato ad un nobile e poi ritornasse alla Corona centrale alla morte dello stesso o quando avesse deciso di dismetterlo. Quindi, il feudo non poteva essere oggetto ereditario né di transazione alcuna.
Ruggiero II fu il primo ad intraprendere una riforma radicale del sistema feudale e, dopo il 1140, ordinò un’analisi patrimoniale, i cui passaggi sono contenuti nel Catalogus Baronum dal quale è possibile ricavare sia i nomi dei feudatari che detenevano i feudi in capite de domino Rege (ossia, ricevuti direttamente dal re), sia di coloro che li avevano ottenuti da un conte o da un barone; questo prezioso registro ci permette anche di determinare i criteri in base ai quali furono inclusi, nella nuova categoria, i vecchi feudi più importanti ed anche le contee nate in seguito alla conquista, che furono trasformate in una serie di feuda quaternata, detenuti dai conti o baroni. Pian piano però le cose cambiarono poiché, sotto le pressioni dell’aristocrazia, il potere centrale concesse ai grandi feudatari i principi di irrevocabilità e trasmissibilità ereditaria dei feudi.
Dopo il 1266, con l’avvento della dinastia angioina, l’egemonia dei feudatari divenne ancora più preminente: la politica angioina, infatti, impose il frazionamento in più parti di numerosi feudi di Terra d’Otranto per permettere di incrementare il baronaggio ed accontentare tutti i cavalieri che avevano permesso a Carlo d’Angiò di giungere sino a Napoli. Ma in questo modo i baroni ebbero la possibilità di incrementare la loro pressione sulla Casa Reale, facendo imporre i loro diritti. Fu liberalizzato così l’ordinamento matrimoniale abolendo, in molti casi, l’obbligo del consenso regio, purché non si concedessero in dote beni feudali e non si stipulassero accordi matrimoniali con nemici della Corona; fu, inoltre, prevista la possibilità di concedere beni feudali in dote alla moglie, senza alcuna distinzione tra feudi nuovi e feudi antichi, purché fossero garantiti i diritti e le consuetudini già istituite in passato.
Nel 1285 fu introdotta l’ereditarietà dei possedimenti feudali di famiglia fino alla quarta generazione, mentre i feudi nuovi sarebbero stati ereditati dai fratelli.
In definitiva, quello che doveva essere il punto di forza della politica angioina ne divenne il tallone d’Achille, generando una situazione rovinosa che ebbe conseguenze non solo direttamente sulla stabilità del potere della Corona, ma anche (e soprattutto) per i territori oggetto di continue lotte che si videro lacerati, impoveriti, danneggiati da baroni e nobili attenti solo alla supremazia della propria casata.
Lo stesso percorso di sviluppo e perdita di controllo subì il processo di costruzione dei castelli nel Regno: dopo la proclamazione della Monarchia, questa era diventata materia di esclusiva pertinenza regia. Infatti, il re, doveva dare l’assenso (nulla osta diremmo oggi) all’edificazione di strutture militari. Con il passare del tempo però anche questo fattore andò degenerando e, con gli angioini, si assistette al proliferare di torri, castelli, presidi e fortificazioni di ogni tipo.
Il dilungarsi sulla descrizione di questi momenti storico-politici e l’insistere sulle regole che stavano dietro alla costruzione di un castello non sono casuali: servono a capire i passaggi, le suddivisioni, le guerre che coinvolsero Specchia a cavallo tra Duecento e Quattrocento ed anche a capire la consistenza di certe leggende che ne hanno poi interessato la storia e lo sviluppo urbano.
Proprio in funzione delle nuove politiche introdotte dagli angioini sul riassetto territoriale e delle vecchie regole di passaggio dei feudi, riscontriamo che Carlo I concede nel 1269 a Rostaino de Romulis alcune parti di casali tra i quali compaiono Specchia Preti ed il casale di Graczano, appartenuti al traditore Ugolotto Alemanno. Ma dalle fonti ufficiali noi sappiamo che Specchia faceva parte, insieme ad un’altra quindicina di paesi, della contea di Alessano che era stata concessa a Rodolfo D’Alnay; non si capisce come mai ci potessero essere due feudatari di una stessa terra. La risposta la si trova leggendo con attenzione le indicazioni riportate nei documenti angioini, nei quali si parla quasi sempre di “parti” di casali! Allora si capisce che Specchia era già stata smembrata e suddivisa in vari parti di feudo che cambiavano possessore in pochissimo tempo.
Nel 1271 lo stesso de Romulis viene nominato castellano di Cosenza e per tale motivo restituisce alla Curia le terre che aveva ottenuto nel Salento; la Curia riassegna gli stessi possedimenti ad un certo Giraldo de Quarteriis che diviene il nuovo signore di Specchia, Grazzano e Trunco. Molto probabilmente per Grazzano o Graczano si intende il sito attuale di Sant’Eufemia, dove sappiamo esserci stato il casale di Grassano appunto; Trunco è invece un casale scomparso tra Tricase e Depressa.
Ancora una volta gli stessi territori vengono restituiti tra il 1277 e 1278 alla Curia che li passa a Petro de Rodoyco, milite e cavaliere della Casa Regia. Da questi rapidi passaggi di proprietà si capisce che quella parte di Specchia oggetto di transazione non dovesse essere così appetibile. Mentre così non era per la porzione o le porzioni più sostanziose che erano detenute negli stessi anni da Goffredo di Specchia, Enrico di Specchia, Nicola Petravalda e i Theodino che nel 1274-75 versano alla Regia Curia una sovvenzione per le terre che detenevano in feudo.
Occorre soffermarsi sulla famiglia dei Theodino o De Tudino (con Berardus) o Theodini, che risultano essere tra i baroni che pagano la tassa sulle terre imposta da Carlo I per sovvenzionare il servizio dell’esercito reale. Questa famiglia nobile era di origine latina e un suo componente (Berardus de Tudino) fu onorato del titolo di familiaris regi durante la dinastia angioina; molto probabilmente si era schierato con essa contro gli svevi anche durante la rivolta sveva-angioina degli anni 1268-69. Questa chiaro sostegno alla casa regnante permise poi al figlio di Berardus, Giovanni Theodino, di essere nominato nel 1276 titolare del feudo in capite, anche se dopo un mese toccò al figlio Berardo, come suo successore, versare i tributi previsti dalla nomina. La procedura di investitura del titolare di un feudo in capite era cosa complicata e lunga che iniziava subito dopo la morte del titolare di un feudo e veniva decretata alla fine della procedura dal versamento di un privilegio. Dopo l’investitura veniva anche definito l’ammontare del servizio militare dovuto dal feudo posseduto ed occorreva recarsi a corte per prestare il giuramento di fedeltà vassallatica. Prestato omaggio e giuramento, per il quale era necessario assenso del re, il neo-feudatario doveva pagare il relevio e lo ius tappeti (due tributi dovuti al re).
Tra il 1277 e il 1278 ritroviamo nei registri della Cancelleria Giovanni Theodino che chiede il regio assenso per il matrimonio tra sua figlia Maddalena e Riccardo Montefuscolo; in tale documento Giovanni è detto signore di Specchia e Tutino. Come abbiamo visto prima, la richiesta di questa autorizzazione era prevista per i feudatari in capite ed i suoi figli già ai tempi degli Altavilla e la tradizione proseguì anche con Carlo d’Angiò.
Sino a questo punto dunque abbiamo Specchia suddivisa tra una quota detenuta dai Theodini e una parte in mano alla Curia regia; in realtà troviamo altri baroni che vengono nominati indirettamente, nell’ambito di altri documenti della cancelleria angioina, e che risultano essere, contemporaneamente ai Theodini, titolari del feudo in capite. In un atto del 30 maggio 1276, ad esempio, troviamo l’elenco dei signori e baroni che dovevano versare nelle casse regie la somma prevista per il possedimento di feudi o parti di feudi e tra di essi figurano Guglielmo Pietravalda, Goffridello figlio di Manfredi di Specchia. A questo punto la vicenda della suddivisione di Specchia inizia a complicarsi poiché entrano in scena dei nuovi personaggi! Infatti, sempre dai “favolosi” registri angioini risulta che nel settembre del 1277 Riccardo Pietravalda (figlio del fu Nicola e padre di Guglielmo) versa sia i tributi dovuti per i casali di Tiggiano, Movigliano e Specchia e sia quelli per i vassalli del casale di Caprarica. I Pietravalda erano dei nobili di probabile origine molisana o calabrese ed erano molto apprezzati dalla corona poiché, in più occasioni, avevano dato prova della loro fedeltà e valore; tant’è che Riccardo figura tra i Giustiziarati di Puglia convocati nel 1290 per la seduta del parlamento di Melfi indetta da Carlo II. Molto probabilmente, l’assegnazione di feudi in Terra d’Otranto faceva parte del progetto di nuovo assetto e controllo della classe dirigente feudale voluta dagli angioini.
A questo punto è naturale fare una considerazione: è assolutamente evidente che l’assegnare parti dell’antico feudo di Specchia a famiglie tanto apprezzate dal potere monarchico centrale ha un alto valore simbolico ed una grande valenza strategica territoriale; ma quest’osservazione appare ancor più banale se si pensa che Specchia ed Alessano sono sempre stati forti poli amministrativi del passato che hanno fatto pesare la loro influenza sui centri vicini. Ritorna, dunque, la puntualizzazione fatta all’inizio: le parti di feudo e casali riferiti ad un territorio limitato nello spazio e soggette o oggetto di passaggi, transazioni e contese sono indicative dell’esistenza di un’antica unità territoriale e feudale che ha generato il bisogno del suo indispensabile smembramento nell’ambito di una situazione di equilibrio politico precario e vulnerabile.
Il casale viene citato nuovamente nei registri del 1280 quando il Giustiziere di Terra d’Otranto viene invitato ad eseguire “la congnazione e l’apposizione de’ termini tra il Casale di Specchia di proprietà del milite Eberardo Echinard de Samary ed il Casale di Belvedere di cui è signore Simone di Belvedere”. E’ certo che la Specchia citata sia la nostra città poiché subito dopo viene fatto l’elenco delle terre tassate per la sovvenzione aggiuntiva per le paghe delle milizie e, infatti, troviamo: Lecce, Otranto, Nardò, Melano, Taranto, Massafra, Castellaneta, Laterza, Ginosa, Matina, Motola, Torre di Mare, Ostuni, Gallipoli, Casale Chirofalco, Specchia, Castiglione de Dipressa con Maidrario, ecc..
Per ritrovare notizie di Specchia occorre poi arrivare al periodo tra il 1297 e il 1303 cioè gli anni dell’istruttoria di Alessano nella quale è descritta l’infeudazione a Riccardo Sembiasi della parte del casale di Morciano a lui donato ed appartenente ad una certa Guglielma. L’istruttoria si tiene ad Alessano e raccoglie documenti e testimonianze non in ordine di avvenimento storico. Si tratta di una serie di documenti, frutto di una trascrizione cinquecentesca, nella quale è descritta l’inquisitio vera e propria e tutte le scritture che la precedono; il rendiconto dell’intera procedura si tiene il 10 giugno 1303 e si racconta del sistema di definizione del valore del feudo del Sembiasi al fine di fargli prestare l’assicuratio dovuta. Il giorno 5 giugno il giustiziere ordina una lista di testimoni che il giorno dopo devono essere presenti per dar seguito alla valutazione della rendita annua del feudo di Morciano e nell’elenco dei testimoni citati, la parte nobile è rappresentata da: Berardo Theodino, Camillo Pisanello, Goffredo de Specca.
Il fatto che tale procedura si sia tenuta ad Alessano indica che la città era una vera e propria roccaforte dell’osservanza angioina e che tutta l’area intorno (compresa anche Specchia, rappresentata da Goffredo) si era trasformata in un presidio del consolidamento della nuova dinastia in questa zona periferica del Regno. Nonostante questo, continua quel processo di pressione sul potere centrale dei feudatari locali che nei primi anni del trecento spingono verso un tentativo di unificare i casali vicini per cercare di creare delle unità territoriale consistenti. Il nostro caro Giovanni Theodini cercò di ottenere proprio questo risultato nel 1318 allorché aggiunse alla sua quota di Specchia una “certa” parte dello stesso territorio, oltre a possedere un terzo di Tutino ed il casale di Pluminiano.
Arriviamo al 1326, quando viene nominata nei registri una certa Giovanna Pietravalda (forse figlia di Riccardo) per i casali di Specchia, Tiggiano, Caprarica, Movigliano e Montesano. Ancora una volta, il tentativo fin troppo evidente di creare dei buoni agglomerati territoriali risulta essere la prerogativa fondamentale per tutti, tanto da arrivare a dei veri e propri assalti ed atti intimidatori ai danni di una delle parti in gioco (come vedremo tra poco anche per Specchia).
Intanto nel 1332, il feudo della nostra placida cittadina arriva ad essere suddiviso in cinque parti: lo sappiamo con certezza poiché in quell’anno Giovanni Theodini versava la tassa sostitutiva del servizio militare proprio per la “quinta parte di Specchia”. Ma chi sono i detentori delle cinque quote? Di sicuro abbiamo: Riccardo Pietravalda o la figlia Giovanna, Giovanni Theodini (non è chiaro se nelle cinque parti rientrasse la nuova quota aggiunta nel 1318 come parte a se stante o se questa facesse parte della precedente). Ma Giovanna era sposata con un erede della famiglia Amendolea ed aveva concepito Giovanni Amendolea (o Giovan Antonio) che aveva eredito tutto il patrimonio della madre. Alla morte di Giovanni (avvenuta tra il 1326 e il 1336) i beni erano passati a Giustino (primogenito di Giovanni e Giovanna Ruffo di Calabria) che nel 1336 pagava i diritti feudali per Specchia, Tutino, Caprarica e Movigliano. Dunque un’altra quota di Specchia apparteneva agli Amendolea che riescono ad ottenere anche una quota di Tutino come conseguenza dei gravissimi fatti accaduti nel 1335, anno durante il quale si scatenò una lotta furibonda tra Giovanni Amendolea ed altri feudatari tra i quali figura Giovanni Theodino; nei registri angioini è riportato che Giovanni de Amendolea, figlio di Giovanna di Petravalda e marito di Giovanna Ruffo di Calabria, è in controversia con i cavalieri Giovanni Theodino e Amelio del Balzo, Caterina D’Alneto (nuora di Amelio), Berardo e Francesco Theodino figli di Giovanni. L’oggetto del contendere era il contemporaneo possedimento dei due nobili di una parte di Specchia Preti, sulla quale vantava il titolo Giovanni de Amendolea che allora decise di invadere arbitrariamente i territori del Theodino; quest’ultimo rispose all’offesa assaltando con le armi alla mano la casa della madre di Giovanni de Amendolea ed insultando i suoi vassalli. Forse quest’episodio segnò tanto profondamente la memoria collettiva dell’epoca che da qui nacque il mito di quella Lucrezia Amendolara (presunta matrona romana) fondatrice di Specchia: una semplice distorsione di un episodio realmente accaduto che venne ingigantito, stravolto e modificato con il passare dei secoli.
Non sappiamo come la cosa venne sistemata, ma di certo gli Amendolea continuarono a versare i tributi per Specchia come è chiaramente indicato nei registri angioini: tra il 1333-1378 Giovanni Amendolea versa 3 militi e 7 once per i casali di Specchia, Tiggiano, Caprarica, Movigliano, Montesano e Motesardo; intanto il 16 luglio del 1362, Berardo Theodino (definito come Barone d’Otranto e delle Terre di Pietro d’Alemagno) concede in foedum “a Sergio Cola abitante del Specchio del Prete di diverse case e terreni nel luogo e nel territorio dello Specchio” e lo stesso Berardo versa i tributi per una certa parte di Specchia Preti nel periodo tra il 1377-1378.
Secondo quanto viene riportato nel Libro Rosso della città di Lecce (fasc. LXVII), altri danari vengono versati da Principello della Spessa nel 1369: si tratta di un vassallo del Conte di Lecce Giovanni D’Enghien che possedeva la Terra di Donna Nova, (comprendente quote di Presicce ed una di Specchia de Presbiteri) e la terra di Riccardo da Marcsano (con quote di Morciano e Salve). Intanto Giustino si sposa e passa i beni ad Antonio Amendolea che ha due figli: Giovanni e Giordino. Giovanni sposa Costanza d’Angiò e concepiscono Margherita de Amendolea (o Amigdolea) che nel 1383 sposa Raimondello Del Balzo e gli porta in dote la baronia di Tutino ed altre terre tra le quali Specchia.
Poco prima del matrimonio però troviamo traccia del momento fatidico che segna l’ufficialità dell’esistenza del castello di Specchia che viene registrato come bene oggetto di concessione: nel 1398 nei documenti angioini del De Lellis viene detto che i “magnifici coniugi Raimondello Del Balzo, cavaliere, consigliere, e Margherita di Amendolea, in qualità di figlia del magnifico Giovanni di Amendolea, milite, e il magnifico Antonio di Amendolea padre del detto Giovanni, e il fu Giordino di Amendolea, fratello minore del detto Giovanni, riguardo alla concessione del castello di Caprarica e di Specchia Preti e del casale di Tiggiano parti della baronia di Specchia. Ecco che i dubbi riguardo la nascita del maniero cittadino cadono dissolti da una classificazione ben precisa che non lascia adito ad incertezze e che designano, in maniera chiara, l’esistenza di un edificio militarizzato e probabile residenza nobiliare. Chi ci abitasse prima di Margherita e Raimondello non è dato saperlo, ma qualche considerazione riguardo la nuova situazione politica e strategica di Specchia la possiamo fare, soprattutto in prospettiva di analisi di ciò che sarebbe accaduto circa 30 anni dopo, quando la città fu messa a ferro a fuoco in conseguenza di una vendetta consumata a piatto freddo!
Ma a questo punto dobbiamo dilungarci ed allargare lo sguardo su quello che accadeva in Italia, al fine di capire il clima di tensione che stava iniziando a coinvolgere anche Specchia.
Quando Carlo di Durazzo morì, Napoli era precipitata nel caos che rischiava di far crollare la monarchia degli Angiò-Durazzo. Si contrapposero i sostenitori dell’erede di Carlo e il partito favorevole agli Angioini di Francia. I filo-francesi proclamarono re Luigi II d’Angiò. Lo scontro assunse presto le proporzioni di una vera e propria guerra. Nel corso del 1387 i sostenitori degli Angioini francesi occuparono la capitale, costringendo la reggente Margherita col piccolo Ladislao di Durazzo a fuggire. Luigi d’Angiò salì sul trono, ma dovette affrontare un serio problema e cioè quello di addomesticare i baroni ribelli che erano riluttanti al nuovo ordine. Ben presto però Ladislao, appoggiato dal nuovo Papa, riconquistò il trono e non esitò a sbarazzarsi (anche con l’omicidio) di tutti i filo-francesi presenti sul suolo d’Italia. Il Salento non rimane indenne dalle ire del re che spoglia di ogni bene anche i simpatizzanti locali di Luigi: tra i nostri conoscenti tocca a Theodino i cui possedimenti (tra i quali Specchia) vengono ceduti a Raimondello del Balzo nel 1398. Ma Raimondello era da poco marito di Margherita de Amendolea che gli aveva portato in dote la baronia di Tutino ed altre terre tra le quali anche quote di Specchia. Ecco allora che vengono gettate le basi di una situazione politica pericolosa ed altamente esplosiva: il re Ladislao, oltre a concedere a Raimondello la baronia di Tutino, dona alcuni vassalli della stessa terra a Francesco della Ratta conte di Caserta e di Alessano. Francesco era sostenitore della fazione francese, ma aveva patteggiato con Ladislao una “remissione dei peccati” con la tregua di Benevento dell’aprile 1398. Morto Raimondello, i feudi passano al figlio Giacomo Del Balzo che li tenne fino alla fine della dominazione angioina che arrivò nel 1435 quando moriva a Napoli la regina Giovanna II (sorella di Ladislao) che cedeva il passo ad Alfonso d’Aragona, insediatosi sul trono nel 1442. Prima di andarsene però, la cara Giovanna aveva pensato bene di spazzare via tutti i suoi oppositori, compresa la cognata Maria d’Enghien (che aveva sposato Ladislao nel 1407 e che ne era rimasta vedova nel 1414) ed il figlio Giovanni Antonio, per riprendersi il principato di Taranto. Ecco allora che assoldò il famoso Giacomo Caldora che mise a ferro ed a fuoco mezzo Salento, combattendo contro coloro che erano rimasti fedeli al Principe di Taranto Del Balzo-Orsini.
I Della Ratta, approfittando della messa al bando di Giovanni, decisero di riprendersi tutti i feudi, casali e castelli dei Del Balzo; ma, per loro sfortuna, la fedeltà e l’ostinazione degli abitanti di questi luoghi non cedettero il passo ad accordi e rese di nessun tipo e, naturalmente, ciò provocò la decisione di distruggere quello che non poteva essere conquistato con le buone. Specchia fu presa d’assalto e quella che era stata la “fortezza dei Del Balzo” fu messa a ferro e fuoco con le ben note conseguenze che conosciamo. L’offensiva del Principe di Taranto si scatenò nell’inverno del 1435 contro i Della Ratta che furono costretti a cedere l’intera contea di Alessano a Raimondo Del Balzo (figlio di Giacomo e di Covella di Tocco) che succede al padre nel 1444 anche nei possedimenti di Specchia. Nel 1452, dietro concessione del re Alfonso I, Raimondo ricostruisce e ripopola la nostra cittadina, dotandola di un nuovo castello e di una nuova cerchia muraria ancora più massiccia e imponente della precedente.

Figura 18: Bifora superstite nel cortile

Non è necessario proseguire oltre sulla storia delle successioni del feudo di Specchia poiché le notizie da qui in poi si fanno abbastanza certe e dettagliate; ma una considerazione occorre farla! Il Del Balzo si prodiga per ridare alla sua amata città lustro e splendore dopo i danni subiti dalla guerra che l’aveva coinvolta e ridotta ad un paese fantasma; gli oltraggi da rimediare erano anche quelli della desolazione prodotta dalla peste del 1429 che infuriò per tutto il sud Salento, generando uno spopolamento tale da rendere necessario rinfoltire la popolazione con gruppi stranieri proveniente da più parti, per ridare ossigeno ad un’area segnata profondamente dalla pesante crisi economica e demografica.
Lo abbiamo già detto prima: dell’evento traumatico del 1434-35 il castello ne porta ancora i segni visibili nei rifacimenti ed integrazioni che hanno cercato di ridare forma e decoro ad un edificio gravemente compromesso; di fatti, osservando le varie facciate proprio nelle parti più antiche, sono abbastanza identificabili delle profonde sbrecciature e i netti cambi di tecniche di apparecchiatura della tessitura muraria che identificano le diverse “fasi” cronologiche che si intravedono anche per le differenze di colore, di materiali, di spessore dei giunti. Anche l’apparato decorativo fu stravolto specialmente nel cortile, dove anche le tre belle bifore furono sacrificate per adeguare la murata alla nuova distribuzione interna degli spazi. Ma in questa parte dell’edificio fu fatto un buon lavoro di livellamento delle difformità che non fu altrettanto accurato sulla facciata verso il corso, sulla quale predomina quasi un effetto di disordine e di mancanza di accuratezza e ridefinizione dei volumi (fig. 19-20). Questo potrebbe essere sintomatico di una sorta di attrazione della piazza come polo di presentazione di quinte edilizie adeguate e decorose, mentre il lato in questione appare defilato e privo di interesse urbanistico, forse per la presenza del fossato e delle murate difensive che era troppo complicato riadattare, oltre che caratterizzate da “cicatrici” molto evidenti.

Figura 19:Diversi tipi di apparecchiatura sulla facciata
Figura 20: Sbrecciatura sulla murata

Ritornando alle considerazioni iniziali, possiamo affermare che l’impianto attuale del castello fu concepito in un solo momento con un’idea pianificatrice tipica di una forte presenza feudale che stabilisce in maniera chiara le connotazioni del potere politico, militare e nobiliare; ma a quando risale tale iniziativa? Quando nel 1398 Margherita de Amendolea sposa Raimondello il castello esisteva già, ma chi lo aveva costruito? Di sicuro non fu una costruzione fatta in occasione del matrimonio e si trattava di una dimora (o presidio militare) già funzionale e funzionante. Molto probabilmente lo abitavano Giovanni de Amendolea con Costanza d’Angiò e forse, prima di loro, il nonno dell’Amendolea con la moglie Ruffo di Calabria. Questa è solo un’ipotesi; per ora non sapremo mai la consistenza del castello e da chi, con certezza, fosse abitato: potremmo anche immaginare che la dimora della Pietravalda (madre di Giovanni) attaccata dal Theodino nel 1335 fosse proprio il maniero citato; potremmo anche affermare che in realtà un qualche tipo di struttura a presidio del luogo esistesse già alle soglie del 1200: non si spiegherebbe come mai i De Specula avessero deciso di costruire un castello a Presicce senza averne uno nel loro primo feudo di appartenenza, almeno che la quota che conteneva il fortilizio primitivo non appartenesse a qualcun altro.
Si potrebbe pensare che i Monteroni avessero scelto Specchia come luogo nel quale installare una piazzaforte che esercitasse il controllo nei feudi limitrofi e da poco assegnati dalla corona centrale, magari avevano riutilizzato una struttura già esistente sul luogo e di origine bizantina. Occorre insistere su questo punto, ostinandosi a capire le ragioni che spingono alla costruzione di un castello e sulle funzioni svolte nelle varie culture e politiche succedutesi sul territorio di Specchia. Se è certo che nella zona di Sant’Eufemia fosse presente da secoli un insediamento umano produttivo, impostato sul modello del koria bizantino, non è chiaro se sulla collina, che ospita l’attuale centro storico, ci fosse un edificio (se pur semplice) che svolgesse una funzione di avvistamento e difesa. In generale, potremmo dire che tra il 900 e il 1000 si assiste ad un cambio di cultura che modifica pesantemente il modo di intendere la difesa non assegnata più al singolo castello, torre o fortilizio: il clima di terrore ed insicurezza, provocato dalle scorrerie saracene e dai pirati, genera l’esigenza di difesa collettiva e dell’incastellamento che coinvolge una chiesa, un piccolo borgo, un casale che vengono murati e dotati di strutture difensive ed offensive atte anche ad identificare la struttura sociale della comunità che le utilizza.
Come sostiene Raffaele Licinio, le generalizzazioni sono sempre pericolose ed è per questo che bisogna sottolineare che un castello o una fortezza, sia nella cultura bizantina che normanna, non sono tutti strutturati allo stesso modo, ma si adeguano alle funzioni e caratteristiche della comunità che le installa: avremo così i castelli con funzioni squisitamente militari ed altri progettati in maniera elementare per la difesa di semplici coloni, chiese rurali o piccoli borghi. Dunque, nella cultura bizantina prenormanna, il fenomeno dell’incastellamento non coinvolge solo località strategicamente importanti, ma anche luoghi dove lo sfruttamento agricolo e la colonizzazione rurale sono gli aspetti predominanti. Quest’ultima connotazione potrebbe essere quella prevalente a Specchia, ove potremmo ipotizzare l’esistenza di un casale intorno a Sant’Eufemia dedito all’agricoltura (e di altri numerosi casali sparsi intorno) e di un luogo di controllo e rifugio sulla collina: questa situazione potrebbe spiegare perché in tanti scritti e vicende del passato si racconta quasi di una dualità di Specchia, una sorta di alter ego dell’insediamento da usare all’occorrenza; lo stesso luogo potrebbe essere poi quello scelto dai normanni come sede di potenziamento del potere centrale e come sede di presidio di un’area di confine e nodo viario strategico.
L’incastellamento normanno assume però caratteristiche diverse: la struttura difensiva viene concepita come realtà a se stante, spesso ai margini della città o del nucleo abitativo esistente, inserita nella prossimità, ma non sui bordi del circuito murario cittadino; spesso si tratta di una torre, sullo stile della motta, circondata da un fossato che ha il compito di difendere, controllare e magari difendersi dagli abitanti che sono nelle sue prossimità. Insomma, i normanni militarizzano il territorio del Salento e l’edificazione dei castelli rientra nel processo di frazionamento del potere delle unità feudali storiche.

I castelli rurali normanni erano dislocati nel territorio in modo da organizzarne la difesa militare, controllando le strade principali. Dalla lettura del Catalogus Baronum si capisce che tutti questi castelli erano i centri di feudi tenuti, quasi sempre, da cavalieri di origine normanna; dalle terre detenute venivano ricavati i mezzi che consentivano di svolgere un servizio di guardia ai castelli di competenza, ma anche di pagare i tributi dovuti al potere centrale. Dunque, Specchia potrebbe rappresentare il prototipo di tali meccanismi insediativi evolutisi nel tempo che trovano una certa somiglianza anche con la tipologia costruttiva presente a Fulcignano e Tutino, riconosciuti dagli studiosi come castelli di origine normanna e caratterizzati da un impianto “a recinto” munito di torri. La differenza sta nel fatto che questi ultimi due complessi sono rimasti poco coinvolti in processi di stravolgimento e rifacimento della struttura che ne rendono maggiormente leggibile l’origine e la natura; ma osservandoli dall’alto è sorprendente scoprirne le analogie: uguale forma, uguali proporzioni, uguale orientamento. Nell’immagine in basso, evidenziati dai cerchi rossi, vediamo in successione i castelli di Specchia, Fulcignano e Tutino ed il loro rapporto con il territorio circostante.

La tipologia architettonica è quella del castello-recinto, caratterizzato da una cinta rinforzata da torri e protetta da fossati. A Specchia, una volta attraverso l’arco di accesso, si può notare sulla destra del corridoio il vano dello scalone che porta al piano intermedio ed a quello nobile sulla cui volta è presente una caditoia, che preannuncia l’esistenza di una stanza superiore, dalla quale venivano probabilmente gettati sassi, acqua bollente, per colpire il nemico (come a Trani ed a Tutino) il che fa pensare che la scala nobile sia in realtà un adattamento di un elemento strutturale già esistente.

Figura 21: Ingresso del castello di Fulcignano

Altra caratteristica simile ad alcuni castelli ritenuti svevi è che i grandi torrioni sembrano avere solo funzioni protettive di un fianco del castello con la cortina a piombo. Ma le analogie con Fulcignano, ad esempio, sono ancora maggiori: l’arco ogivale, che caratterizza l’ingresso, realizzato con conci perfettamente squadrati, le murate ben apparecchiate e caratterizzate da file ordinate e regolari di mattoni.
Per Specchia, allora, potrebbero valere le stesse considerazioni che il professor Paul Arthur ha fatto per Fulcignano definendo il suo castello come una “… delle testimonianze più singolari del Medioevo salentino. La sua forma è localmente inconsueta, ed è probabilmente una delle fortificazioni medievali più antiche sopravvissute nella provincia..”. Anche lo sviluppo storico ed urbanistico è stato simile: sembra che il castello di Fulcignano sia stato costruito esternamente ad un chorion bizantino; forse prima era situato su di una motta e poi si è ingrandito in epoca sveva per controllare gli importanti assi viari che passavano lì vicino. Qualcuno ritiene che Fulcignano facesse parte di una serie di dodici castelli costruiti ex novo che avevano lo scopo di presidiare e difendere le aree più estreme del regno ed il fatto che non venga citato nel “Statutum de reparatione castrorum” di Federico II del 1231, indica che si trattava di un castello feudale, quindi né reale né demaniale. Altra analogia con Specchia è che anche Fulcignano agli inizi del ducento fosse in mano ad una “famiglia d’Alemagna”. A differenza del nostro paese però, venne abbandonato a causa dell’attrazione crescente esercitata da Galatone, mentre il castello di Specchia pian piano divenne un polo di richiamo per gli abitanti dei casali limitrofi e, probabilmente, sviluppò intorno alle sue mura un borgo che venne, a sua volta, fortificato e dotato di strutture difensive.

Figura 22: Le mura del castello di Fulcignano

Con l’avvento dell’età angioina e della nuova aristocrazia francese il castello diveniva emblema di un potere locale crescente che doveva necessariamente essere rappresentato ed ostentato. Dunque, in questa fase il castello inizia ad identificarsi con lo stesso feudo detenuto ed il feudatario aveva la necessità immediata di trasmettere, anche visivamente, la propria autorità sulla quale si basava tutto il sistema politico-amministrativo ed, in particolare, fiscale.
Ma quale era il rapporto tra la struttura castellana ed il borgo che si era sviluppato ai suoi piedi? E quali processi di integrazione si erano messi in atto tra i casali circostanti e il nuovo punto di riferimento visibile sulla collina? Per ipotizzare delle risposte a tali domande non bisogna mai perdere di vista i concetti espressi all’inizio del nostro racconto, che riguardano l’abilità di coniugare momenti storici generali con particolarità locali e specifiche. Ebbene, sappiamo che Specchia doveva essere un luogo fortemente caratterizzato dalla presenza di monaci bizantini o di popolazioni di origine greca: lo dicono i numerosi toponimi che fanno riferimento alla presenza di chiese dedicate a Santi orientali: Sant’Elia vicino Cardigliano, San Demetrio nella pianura sottostante Masseria del Monte, San Leonardo verso Alessano, San Nicola e Sant’Eufemia (non propriamente una Santa orientale) con le rispettive chiese alle pendici della collina del paese. La decisione papale di insediare ad Alessano una sede vescovile non fu sicuramente causale, poiché occorreva assolutamente debellare il rito orientale e latinizzare i territori del basso Salento; i normanni servirono perfino a questo, anche se la loro politica in merito fu estremamente tollerante ed accorta. Caratteristica delle loro modalità di intervento era, infatti, quella di lasciare libera la popolazione di praticare il culto che più gradiva, ma di introdurre lentamente delle regole ed elementi di riferimento che, con il tempo, andavo condizionando le abitudini degli abitanti locali. Prova ne sia che storicamente la venuta dei normanni nel Salento, nei primi anni del XI secolo, segna proprio il passaggio di tutta la Terra d’Otranto al rito latino.

Figura 23: Nucleo normanno-svevo del centro

Se dobbiamo fare riferimento a queste indicazioni, sappiamo che i normanni avevano l’abitudine di costruire un’apposita chiesa nella quale celebrare seguendo nel loro rito (quello latino): allora potrebbe essere plausibile pensare che costruirono anche a Specchia un edificio ad hoc che iniziò a svolgere, insieme al castello, una nuova funzione amministrativo-religiosa per tutti coloro che volevano o dovevano avere a che fare con i nuovi governanti. E’ gioco forza pensare tale chiesa a Specchia sia proprio la Chiesa Madre che si trova (e non a caso) di fronte all’ingresso del fortilizio: l’attuale transetto era in origine la navata principale e l’arco a sesto acuto, scoperto nei recenti restauri nella facciata di fronte al portale del castello, ne era l’ingresso. Casuale la volta ogivale del vano e il suo richiamo alla stessa tipologia di copertura del corridoio di accesso al cortile del castello (fig. 8 e 9)? Supposizioni? Può anche darsi! Ma delle notizie certe ce le abbiamo. Sappiamo che sotto la chiesa c’è una cripta e sappiamo che alcune tracce della precedente costruzione sono state ritrovate durante i lavori di sostituzione del pavimento. Si può pensare che in questa cripta ci siano i resti di quello che era un luogo di culto poi riutilizzato dai normanni o creato da essi stessi? Sembrerebbe proprio di sì, almeno leggendo quello che il Tasselli sosteneva e riportato ne “La Campania Sotterranea e brevi notizie degli edifici scavati entro roccia nelle due Sicilie ed in altre regioni” di Giuseppe Sanchez nel 1833; a pagina 540 si legge: “… sotto la chiesa parrocchiale di Specchia è una grotta, che serve da oratorio ai divoti cristiani…”. Detto questo, potremmo pensare che, sulla collina, al castello-recinto si fosse aggiunta, proprio di fronte, la chiesa e che si venisse a delineare in tal maniera una piazza che iniziò a divenire luogo di scambi, incontro, controllo. L’osservazione del centro storico di Specchia farebbe pensare ad una sorta di nucleo originario racchiuso tra via Gonzaga, via Calella, via Garibaldi, via Foschi, via Foscolo e la zona sul retro del castello (fig. 23) che non sarebbe altro che il borgo di epoca normanno-sveva che pian piano fu fortificato e progressivamente ingrandito a mano a mano che la popolazione cresceva e si insediava sulla cima della collina che, di sicuro, offriva molta più sicurezza delle campagne immediatamente circostanti. Forse tale luogo era cinto di mura ed è probabile che vi fossero delle porte in corrispondenza degli assi viari principali (via del Balzo, via XXIV Maggio, via Umberto I); potrebbe essere stato proprio questo il borgo che nel corso del trecento crebbe e che necessitò di una nuova cinta muraria che sarebbe poi andata a corrispondere grosso modo a quella che venne successivamente demolita alla fine dell’ottocento.

Figura 24: Le fasi di sviluppo del nucleo normanno di Specchia

Nella figura sopra (fig. 24) troviamo riassunto in 4 fasi la genesi e lo sviluppo del nucleo primigenio del centro storico di Specchia che parte dal castello-rocca isolato sulla collina, aggiunge poi la chiesa proprio di fronte al suo ingresso ed inizia ad inglobare porzioni limitrofe di terreno (1-2-3) che vanno a costituire il borgo primitivo con le sue mura e le sue porte. Come abbiamo detto, intorno al borgo esistevano numerosi casali “extra moenia” che iniziarono a quel punto ad avere nel centro murato sopra la collina un punto di riferimento ben preciso non perdendo, tuttavia, la loro indipendenza putativa. È probabile che il sito oggi occupato dal Convento dei Francescani Neri già ospitasse un qualche tipo di luogo di culto, così come è plausibile pensare che gli appellativi di alcune strade e piazze (via Sant’Angelo, piazzetta San Giovanni) facessero riferimento alla presenza di piccole chiesette che ne tramandarono poi il nome.
E se provassimo ora a concretizzare visivamente la consistenza delle cose raccontate sino questo punto? Ebbene, mettiamo insieme un po’ di pezzi: usiamo una vista satellitare attuale di Specchia e ci inseriamo il castello nel momento del suo massimo splendore trecentesco, con il suo bel cortile e suoi masti ancora scevri di aggiunte posticce ed i fossati a dividerlo dal borgo; mettiamoci la chiesa matrice, a navata unica nel luogo dell’attuale transetto, con il suo portale originario d’ingresso e il suo campanile a vela sul retro; aggiungiamo le poche case che iniziarono a riempire il suolo intorno al castello, che fu progressivamente racchiuso all’interno delle mura; ci mettiamo anche qualche torre (ad esempio quella che sarebbe diventata la torre campanaria della successiva chiesa matrice e l’attuale mastio di palazzo Ripa) ed anche la quattro porte urbiche (anche se non tutte nella loro ultima posizione occupata).

Ecco quello che verrebbe fuori:

Al di la delle approssimazioni stilistiche ed architettoniche, nonché degli inserti fantasiosi introdotti nella ricostruzione (che, spero, verranno perdonati), è interessante notare come la corrispondenza urbanistica e storica delle ipotesi formulate non sono del tutto assenti. Gli elementi a supporto di una congettura così ardita tutto sommato non mancano; parecchi elementi gli abbiamo già analizzati parlando del castello e delle sue caratteristiche strutturali e decorative; ma anche le peculiarità stilistiche site sugli edifici, che fanno parte dell’espansione post-bellica della seconda metà del quattrocento e di quella cinquecentesca del borgo, non fanno altro che confermare la diversità temporale di costruzione dell’agglomerato urbano che verrà ricompreso nella seconda cerchia di mura che sarà quella che poi verrà riedificata nel 1452 ed adattata alle nuove tecniche di guerra. Tali adattamenti non interessarono il castello, al quale verranno apportate modifiche del tutto insignificanti rispetto a quelle che si riscontrano invece a Copertino, Acaya, Lecce, Andrano, Corigliano d’Otranto, Otranto, Tricase. In tutti questi posti, ma in misura meno evidente anche in tanti altri di minore importanza, i rispettivi castelli furono interessati da pesanti rimaneggiamenti che sostanzialmente inglobarono le precedenti strutture in nuove cortine che fossero in grado di resistere ai colpi dell’artiglieria moderna. A Specchia questo non fu necessario, poiché il castello si ritrovò al centro del nucleo urbano che, intanto, lo aveva accerchiato; inoltre, le caratteristiche morfologiche della collina rendevano del tutto superfluo sprecare danaro e fatica per rafforzare quello che non era più un caposaldo di difesa. Forse fu proprio per questo che si optò solo per la creazione di uno snello ed alto torrione (quello ancora esistente) al quale assegnare una probabile funzione di avvistamento e coordinamento delle forze militari, ma si decise di rafforzare la parte più scoperta delle mura cittadine con un vero e proprio fortino costruito secondo le più moderne tecniche dell’epoca che fosse in grado di affrontare da solo difesa della città ed offesa del nemico. Del fortino, ne ho già parlato in un precedente articolo: sappiamo che era situato all’imbocco di via Roma e che fu demolito nel 1952 per allargare la piazza del mercato. Avevamo anche provato ad immaginare il suo aspetto ricorrendo a rappresentazioni pittoriche antiche che lasciavano intravedere le mura e le torri di Specchia. Eravamo anche giunti alla conclusione che il nostro prezioso fortino non doveva essere difforme dai numerosi torrioni sparsi per il Salento, anche perché il Marti nel 1931 scriveva che dell’apparato difensivo di Specchia “… oggi rimane, non solo un torrione, come vogliono tutti gli storici, ma un breve tratto di diroccanti mura e nereggianti grandi blocchi parallelepipedi ed anche un conservato isolato fortino a facciata piana, ornato di caratteristici dentelli, come quelli che, a corona, ornano il detto torrione”.
Dopo aver approfondito l’argomento, oggi possiamo affermare con assoluta certezza che il Marti, quel giorno che passò da Specchia, doveva aver preso un bel colpo di calore perché descrive il fortino come una struttura a facciata piana ornata di dentelli, insomma una banalissima torre quadrata simile a quella del castello.

Figura 26: Il centro di Specchia nel 1948.

Nulla di più sbagliato! Il nostro fortino aveva forma circolare ed era caratterizzato da casematte, marcapiani e base scarpata. Da dove proviene questa certezza? Beh, da mappe catastali e foto aeree che riprendono la costruzione prima che venisse demolita; si tratta di documenti preziosissimi poiché sopperiscono alla mancanza di materiale proveniente da archivi comunali (sicuramente esistente), attualmente non disponibile. Vediamo il primo: si tratta di un’aerofotogrammetria del 1948 proveniente dagli archivi dell’I.G.M. (Istituto Geografico Militare) e che riprende tutta l’area centrale del basso Salento; ingrandendo in corrispondenza di Specchia (fig.26) è possibile ottenere un’immagina straordinariamente nitida del paese che lascia intravedere il castello, i principali complessi nobiliari, la chiesa Madre senza le due navate laterali e con il suo vecchio campanile, ampie aree non ancora urbanizzate in prossimità del centro storico ed anche il fortino, ancora al suo posto, con una porzione del fossato antistante. Proviamo a sottoporre l’immagine ad un ulteriore ingrandimento (fig. 27) che faccia vedere meglio la torre angioina: effettivamente spunta ben evidente (nel cerchio rosso) la forma e la struttura cilindrica del fortino che appare incuneato a cavallo dell’angolo del circuito delle mura ed a presidio della parte dello spiazzale occupato da una delle porte cittadine; subito alle sue spalle sembra esserci un grosso edificio rettangolare che aggancia il resto del tessuto urbano mentre sul fronte si apre il fossato che prosegue dal lato destro del forte sino ad alcune unità abitative che hanno occupato quasi totalmente la sua area; c’è anche una struttura (oggi demolita), indicata dalla freccia rossa, che assomiglia tanto ad una torre quadrata. La tipologia circolare è sicuramente riconducibile al periodo della ricostruzione delle mura di Specchia del 1452, poiché a quei tempi quel tipo di costruzione presentava dei vantaggi legati alla sua forma cilindrica, rispetto a quelli offerti dalle più diffuse torri a pianta quadrata. Infatti, le sue prestazioni belliche ne fecero “un must” del programma costruttivo normanno-sveva che ne arricchirono e rafforzarono i modelli con mura a scarpa alla base per renderli più adatti al tiro di fiancheggiamento. Verso la fine del quattrocento la torre a pianta circolare è ancora molto diffusa anche se con un assetto sempre più basso e più massiccio, ma ben presto verrà sostituita dai bastioni che offrivano maggiore resistenza in caso di attacco nemico con colpi di artiglieria pesante.

Figura 27: Zoom dell’ortofoto del 1948.

Il fatto che nei decenni successivi alla ricostruzione gli apparati difensivi della città non abbiano subito ulteriori modifiche e ammodernamenti potrebbe indicare che Specchia era ritenuta abbastanza sicura, nonostante la situazione non fosse per niente tranquilla. Infatti, le scorrerie di saraceni e pirati erano numerose ed avevano ridotto in macerie numerose località: oltre alla famosa occupazione di Otranto del 1480, ancora nel 1537 Ugento, Marittima e Castro venivano devastate e poco dopo, Salve, Gagliano, Presicce saccheggiate; anche Tricase aveva sofferto offese e razzie. Specchia, Alessano e Montesardo invece non furono toccate, molto probabilmente perché arroccate su delle colline che costituivano già di per sé un deterrente, al quale si univa la posizione nell’entroterra e la presenza di strutture difensive assolutamente funzionali nonostante non fossero del tutto adeguate alle nuove tecniche di guerra.

Figura 28: Mappa catastale di Specchia di inizio 900.

A conferma di quanto visibile nelle foto esposte, possiamo anche ricorrere ad un magnifica pianta di Specchia di inizio novecento (fig.28) conservata presso il Catasto di Lecce nella quale è riprodotta la vecchia Piazzetta S. Oronzo esattamente come appare nella foto aerea del 1948: ritroviamo la torre cilindrica (nel cerchi rosso), l’edificio quadrato (con la freccia rossa) avanzato rispetto alla presunta linea delle mura, la via del Fosso (nome evocativo) e la parte superstite del fossato non ancora riempito in occasione dei lavori di sistemazione del 1952 della piazza del mercato che provocarono il definitivo e completo sconvolgimento di questa parte del centro antico. Ancora una volta possiamo ricorrere a delle ricostruzioni virtuali (approntate sulla cartina storica a disposizione ed ancora in fase di allestimento) per riportare in vita il nostro amato fortino, nell’aspetto che doveva avere quando era in piana funzione e nella veste che appare assolutamente visibile nel famoso quadro dell’Annunciazione conservato nella Chiesa Madre.

Infatti, a questo punto, possiamo affermare che nel quadro del Catalano il borgo riprodotto è proprio Specchia poiché anche quella torre cilindrica che vi è rappresentata ha trovato prove indubbie della sue esistenza. Ma allora, il Marti cosa descrive? Possibile che sia incappato in un errore così grossolano? Molto più affidabile sembra essere la descrizione che il De Giorgi fa nel 1882: “… Si vede ancora una torre, in piazza Ferrante Gonzaga, che risale a tre secoli addietro, ed il castello marchesale¬. …”. Potrebbe essere che il Marti in realtà descrivesse la torre, ad esempio, della Chiesa Madre che obiettivamente assomigliava molto di più al torrione del castello oppure facesse riferimento alla torre che, molto probabilmente, sorgeva accanto al fortino e che è visibile anche nel particolare del quadro del Catalano. Il raffronto con questi due elementi (fig. 29 e 30) ci mette nelle condizioni di poter avanzare questo tipo di ipotesi, anche se rimane irrisolto il motivo della mancata o erronea descrizione del fortino da parte del Marti.

Al di là dei dubbi e dei punti interrogativi che sono rimasti senza risposta, possiamo affermare che Specchia, attraverso le pietre dei suoi monumenti, rivela molto della sua storia; analizzando i processi evolutivo-urbanistici del nostro paese, è possibile comprenderne lo sviluppo monumentale ed ipotizzarne le tappe di espansione. E’ possibile, anche in assenza di documenti ufficiali, scoprire piccoli indizi che consentano di ipotizzare i tratti distintivi del passato di Specchia; possono venir fuori interessanti rapporti tra processi storici, personaggi illustri, elementi architettonici e caratteri urbani che siano in grado di svelare punti interessanti delle varie fasi di crescita del borgo nei secoli e che potrebbero fornire un quadro generale dei suoi stadi di sviluppo. Ecco allora che la riscoperta del passato può passare solo attraverso l’“archeologia urbana” che si occupa di spiegare la storia di un luogo nel lungo periodo e le trasformazioni avvenute nell’uso del territorio durante i secoli.
Per Specchia c’è ancora molto da fare e da dire: attraverso degli studi specifici si potrebbero trovare interessanti relazioni tra i feudatari che si sono succeduti nei secoli e le iniziative artistiche, culturali ed architettoniche avviate degli stessi ed ancora presenti sul nostro territorio. È indubbio che le difficoltà sono enormi, data la cronica mancanze di documentazione adeguata, ma pian piano si possono mettere insieme piccoli pezzi che sono in grado di delineare un percorso da seguire. Si potrebbe, ad esempio, parlare delle grandi scuole di matematica, fisica, medicina, musica che tra il tre e il quattrocento erano presenti nel sud Salento tra Specchia, Alessano, Montesardo: di queste importanti “eventi” culturali della nostra terra abbiamo già rintracciato interessanti reliquie consultando le ricerche del Centro per Le Arti Ebraiche e dell’Università Ebraica di Gerusalemme che hanno attributo la provenienza di un importante manoscritto di medicina del 1415 a Specchia. Episodi come questi testimoniano, in maniera evidente, che dalle nostre antiche biblioteche provenivano fonti scritte preziose e di non così comune diffusione; ma i monumenti più antichi del nostro paese riecheggiano anche di interessanti richiami ed ammiccamenti tra politica, potere, religione ed arte dei tempi che furono. Parleremo in un’altra occasione di altri luoghi, di altre storie, di altri personaggi e leggende che possono davvero farci rendere conto del prezioso scrigno che è Specchia e delle favolose circostanze che hanno contribuito a rendere grande la storia del nostro Salento.
Spesso per ignoranza o superficialità pensiamo alla storia con la esse maiuscola come ad un qualcosa che non ci appartiene e che ci ha sempre lasciati ai margini delle proprie vicende, ma la realtà dei fatti è molto diversa: occorre solo imparare ad apprezzare di più quello che abbiamo sotto gli occhi e capire che solo con una sana consapevolezza della propria storia e del proprio percorso culturale si può costruire l’identità di un luogo e di una cittadinanza vera e radicata che aiuti ad avere speranza nel futuro e, soprattutto, nelle proprie potenzialità.

MASSIMO RIMINI

Bibliografia:

  • Specchia e la chiesa di S. Eufemia – Schena editiore, Antonio Penna.
  • Castelli, torri ed opere fortificate di Puglia – Adda Editore, Raffaele De Vita.
  • La Provincia di Lecce – Bozzetti di viaggio – Congedo Editore, Cosimo De Giorgi.
  • Insediamenti del Salento dall’antichità all’età moderna – Marco Congedo Editore, Vincenzo Cazzato e Marcello Guaitoli.
  • Nuclei urbani di Puglia – Adda Editore, Luigi Mongiello.
  • Copertino e Sternatia, Studio di due borghi in Età Medievale – Tesi di Laure di Ileana Alemanno.
  • Guida ai Castelli Pugliesi – Mario Congedo Editore, Mario Cazzato.
  • Guida di Leuca – Mario Congedo Editore, Antonio Caloro.
  • Alla scoperta di una terra medievale – Mario Congedo Editore, Paul Arthur e Brunella Bruno.
  • Medianum, ricerche archeologiche nei comuni di Miggiano, Montesano Salentino e Specchia – Edizioni dell’Iride, Marco Cavalera.
  • Il Notaio e la pandetta – Congedo Editore, Mario Cazzato. – Storia del Salento – Mario Congedo Editore, Luigi Carducci.
  • La chiesa di Santa Fumia di Specchia e il culto di Santa Eufemia nel basso Salento, Salvatore Fiori – atti del XXV Convegno di ricerche Templari a cura della L.A.R.T.I..
  • Santa Eufemia, la Santa venerata dai templari, B. Capone, 2005.
  • Tricase per mano – Gestione Media Editrice s.r.l (2002) – Oronzo Russo e Giovanni Nuzzo
  • Puglia Preromanica, a cura di G. Bertelli, con contributi di G. Bertelli e M.Falla Castelfranchi, Milano 2004.
  • Alle sorgenti del Romanico. Puglia XI secolo, P. Belli D’Elia, Bari 1975.
  • Relazione Specchia Destinazione Rurale Emergente Progetto Comunitario Eden 2007, Maurizio Giuseppe Antonazzo.
  • Destinazione europea di eccellenza 2007 Migliore destinazione rurale emergente – Comune di Specchia.
  • Un limes bizantino nel Salento? La frontiera bizantino-longobarda nella Puglia meridionale. Realtà e mito del limitone dei greci”- Giovanni Stranieri.
  • Il castello di Morciano, Carmelo Sigliuzzo.
  • Apigliano – Un villaggio bizantino e medioevale in Terra d’Otranto, l’ambiente, il villaggio, la popolazione – Arti grafiche Panico Galatina, Paul Arthur e Brunella Bruno.
  • L’insediamento monastico di Santa Maria del Civo fra indagine storica ed archeologica, tesi di laurea magistrale in topografia medievale, relatore prof. Paul Arthur, a. a. 2008/09 Cortese S. 2009.
  • Nei Borghi dei Tolomei. Formazione e caratteristiche dei centri antichi di Racale, Alliste e Felline, edito dal CRSEC Le/46 Casarano, tip. Martignano, Parabita, Cortese S. 2010.
  • “La masseria “Cutura” note di storia e di archeologia” in Rosso di sera, a cura della Pro Loco, Melissano gennaio 2009, p. 1 Scozzi F. 2009
  • Vescovi rurali e chiese nelle campagne dell’Apulia e dellÕItalia meridionale fra Tardoantico e Altomedioevo – Giuliano Volpe, Dipartimento di Scienze Umane Università di Foggia.
  • I cinque castelli della terra di Tricase, Francesco Accogli – Edizioni dell’Iride – 2006.
  • Guida di Tricase – Mario Congedo Editore, Mario e Vincenzo Peluso.
  • Addio al Novecento – Scuola Elementare di Specchia, Edizioni dell’Iride – 2006
  • Castelli Medievali, Puglia e Basilicata: dai Normanni a Federico II e Carlo d’Angiò, Raffaele Licinio. Bari, 2010.
  • Feudatari, castelli, torri e masserie fortificate del Capo di Leuca (Secoli XII-XVI), Hervè A. Cavallera, Edizioni dell’Iride, 2004.
  • Casali e Feudatari del territorio di Tricase, La dominazione angioina (Secoli XIII-XV), Salvatore Musio, Edizioni dell’Iride, 2007.
  • Dal castello al palazzo baronale, Residenze nobiliari nel Salento dal XVI al XVIII secolo, Vincenzo Cazzato e Vita Basile, Mario Congedo Editore, Bari 2008.
  • Insediamenti del Salento dall’antichità all’età moderna, Mario Congedo Editore, Galatina 2005.
  • Castelli Normanni in Terra d’Otranto, Carmelo Sigliuzzo.
  • La viabilità romana del Salento,Uggeri G., Mesagne 1983. – Santa Maria di Miggiano, Una storia da scrivere, Giulia Rella.
  • Materia, Forma e tecniche costruttive in Terra d’Otranto. Da sapienza locale a metodologia per la conservazione, Stefania Galante.
  • Dopo la fine delle Ville: Le campagne dal VI al IX Secolo, 11° seminario sul tardo antico e l’alto medioevo, 2004, Società Archeologica s.r.l. a cura di Gian Pietro Brogiolo, Alexandra Chavarria Arnau, Marco Valenti
    Sitografia:
  • www.tesori.galcapodileuca.it – Architettura militare.
  • www.cucurachi.com – Bisanzio baluardo d’occidente. Il Salento è nuovamente “grecizzato”.
  • www.solagentis.it – La chiesa Bizantina di Santa Eufemia a Specchia.
  • www.commendasangiovannibattista.it – I templari nel Salento.
  • www.japigia.com – Otranto: San Nicola di Casole.
  • www.archeoclubportobadisco.it – La Chiesa di Santa Maria degli Angeli, località Pozzomauro, Presicce.
  • www.spigolaturesalentine.wordpress.com – Da Specla Presbiterorum a Specchia, Cesare Paperini.
  • www.cesn.it – Il patrimonio architettonico.
  • www.teutonici.unile.it.
  • www.imperobizantino.it – Potenti e deboli: lotta attorno alla piccola proprietà di Mirko Ratti.
  • www.angelabeccarisi.it – Ricerche: Sull’affresco della famiglia Maremonti nella Basilica di S. Caterina d’Alessandria di Galatina. Per una proposta di datazione.
  • www.unisalento.academia.edu – Edilizia residenziale di età medievale nell’Italia meridionale: alcune evidenze archeologicheby Paul Arthur, pubblicato in Edilizia residenziale tra IX-X secolo. Storia e archeologia (2010), All’Insegna del Giglio.
  • www.italiamedievale.org – La società feudale e la cultura cavalleresca nella Napoli angioina, da Carlo I a Roberto il Saggio (1266 – 1343) di Paolo Gravina.
  • www.associazionearches.it
  • www.lameta.net.
  • http://blog.libero.it/SalentodaVivere – La presenza normanna in Italia meridionale e nel Salento.

Fonte Notizia: Massimo Rimini

www.specchia.it